Dino Greco
C'è qualcosa di proditoriamente distorsivo nella rappresentazione della realtà che viene dalla politica e - con riflesso servile - da gran parte dei media. La materialità delle condizioni di vita di milioni di lavoratrici e di lavoratori colpiti dalla crisi economica, il dramma esistenziale di un'intera generazione stretta fra un presente gramo ed un futuro che deprime ogni speranza, sfumano - se pur se ne parla - nell'astrattezza delle statistiche. Si ottunde la vita reale.
Non lo si fa ingenuamente, ma con metodo. Così si può raccontare la favola di una crisi poi non così grave e dirottare il senso di angoscia e di paura che tuttavia persiste, a dispetto di ogni diversivo propagandistico, verso falsi, ma più comodi bersagli: l'immigrato che ti ruba il poco lavoro che c'è, il rumeno che coltiva la naturale propensione alla violenza, lo zingaro che viola la tua casa.
Di questo istinto paranoico, alimentato con pirotecnica invasività, si nutre la campagna repressiva, che sta assumendo in Italia dimensioni parossistiche. L'operaio che difende il suo posto di lavoro, lo studente che si oppone alla spoliazione della scuola, il giovane che rivendica il diritto ad uno spazio pubblico ove discutere, vivere, manifestare, praticare la democrazia, rappresentano altrettanti nemici da neutralizzare. E, se occorre, da colpire con tutta la necessaria durezza.
Si badi, esiste un nesso assai stretto fra questa violenta spirale repressiva e l'ultima trovata berlusconiana - sottovalutata come l'ennesima provocazione - di imbalsamare il voto dei parlamentari, riducendolo a prerogativa dei soli capigruppo, di annichilire la dialettica politica fino a svilirla in una mera formalità, trasferendo la sovranità dal potere legislativo a quello esecutivo e consegnando quest'ultimo nelle mani del suo capo indiscusso.
E ancora, come non capire che l'attacco al diritto di sciopero, la trasformazione del sindacato in un docile intermediario fra i lavoratori e il comando d'impresa rappresentano il compimento di una profonda torsione autoritaria dell'assetto istituzionale del Paese. All'ombra del quale si sta radicando - senza che ve ne sia un'adeguata percezione sociale - una criminalità, meno visibile ed efferata, ma incomparabilmente più pericolosa di quella "di strada" contro la quale si accanisce invece, ipocritamente, la vulgata delle misure securitarie, terreno privilegiato su cui i partiti si contendono il consenso elettorale. Mentre il silenzio sulla ramificata penetrazione del capitale mafioso nell'economia legale è assordante.
Neppure la clamorosa denuncia di magistrati come Nicola Gratteri o come il procuratore generale antimafia Pietro Grasso riescono a scuotere chi nasconde e protegge quella che è una vera e propria occupazione del potere, dal sud al nord del Paese. Anzi, soprattutto al nord, se su Expo 2015 - e sulla torta da 400 miliardi di euro che lì sono in gioco - si protendono i tentacoli della 'ndrangheta sempre più interfacciata con la politica, gli affari e i poteri forti della più europea regione d'Italia. Dal ponte sullo stretto al capoluogo lombardo, passando per l'alta velocità e per il cosiddetto piano casa di impronta berlusconiana, si squaderna sotto i nostri occhi l'identità di quell'"Italia da bere" destinata a diventare libero pascolo di ogni affare privato e di ogni scorribanda malavitosa.
In questo immenso territorio deregolato c'è davvero spazio per tutto: per il riciclaggio di denaro sporco, che viene ripulito nelle asettiche stanze dei santuari della finanza, nelle banche o nelle agenzie di intermediazione immobiliare. E per l'infame pratica dell'usura, o per la tratta di manodopera clandestina, gestita da autorevoli uffici di consulenza con la complicità di individui al secolo nullatenenti e disoccupati di professione, ma capaci di movimentare migliaia di persone nel lavoro illegale, reclutate alla maniera dei vecchi caporali. O ancora, per quelle procedure di appalto, già rese opache dalla pratica del massimo ribasso d'asta, che rendono tante pubbliche amministrazioni corresponsabili di frodi fiscali, violazioni contrattuali, omissioni delle norme in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro.
Allora chiediamo: l'imprenditore che evade il fisco è un eroe positivo del nostro tempo? E' un povero diavolo che agisce coartato da uno stato di necessità? E l'insicurezza sul lavoro, giunta a conseguenze estreme, ha a che fare con la perduta sicurezza sociale, oppure è un'altra cosa? La corruzione, veleno che si insinua in ogni snodo della macchina amministrativa, è motivo di allarme, oppure rientra negli effetti collaterali della modernità? Chi governa questo Paese preferisce sorvolare. Meglio guardare altrove. Meglio scatenare la crociata purificatrice contro i migranti, assimilati, in quanto tali, ad un problema di ordine pubblico. Ronde, espulsioni, campi di concentramento, prigioni dedicate, una legislazione punitiva che introduce nel codice penale il reato di immigrazione clandestina.
Ed è di ieri l'ultima invenzione della ministra Gelmini che vorrebbe contingentare la presenza dei bambini immigrati nelle classi. Domanda: che ne farà degli eccedentari? Ne disporrà la deportazione? Si ripropone una logica da apartheid, barbara e miope insieme. Non capiscono. Non vogliono capire. E invece dovranno prendere confidenza con il fatto che fra trent'anni la composizione demografica di questo Paese sarà profondamente mutata e la consistenza del ceppo autoctono sarà di molto inferiore a quella attuale. Qualcuno pensa di poterlo impedire? Forse no, ma lor signori cavalcano una tigre che produce voti, almeno nel breve. E devastazione morale, perché è in questo oscuro senso di angoscia che prendono corpo gli istinti persecutori, quella via di fuga che consiste nel cercare nell'altro, nel diverso da sé, in colui che è ancora più debole, la causa presunta delle proprie paure e delle proprie insicurezze.
E' dentro questa arcigna diffidenza verso il prossimo che attecchisce quella violenza che si dice di voler estirpare. Lo stato della salute pubblica di questo Paese conferma che le cose sono andate molto avanti. E la crisi economica non aiuta la ricostruzione di sentimenti inclusivi e solidali, di un'idea di bene comune. Ma è questo il faticoso compito cui non si può rinunciare.
Liberazione 20/03/09
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