Senza pietà e speranza

28.12.2008 13:02

 

di Ali Rashid

su Il Manifesto del 28/12/2008

Sono decine e decine i poveri corpi di giovani maciullati e ammucchiati davanti alle caserme nella Striscia di Gaza. Qualcuno è ancora vivo, fa il segno della vittoria con la mano tremante. Nello stesso momento decine e decine di sofisticati F16 e di elicotteri Apache, gioielli dell'industria bellica americana, con precisione e concomitanza tecnologiche attaccano altri obiettivi. Colonne di fumo e detriti coprono cielo e terra. Negli ospedali arrivano con mezzi di fortuna resti umani di tutte le età in condizioni umilianti. Tante le vittime tra i bambini. A Gaza è da tempo scomparsa la pietà. Da tempo su questo angolo di Mediterraneo è steso un velo dietro il quale Israele può fare quello che vuole per imporre la resa totale in cambio di una vita vegetativa senza dignità e umanità. È un massacro annunciato, il ministro degli esteri israeliano l'aveva illustrato tre giorni fa al Cairo in una conferenza stampa con il ministro degli esteri egiziano. L'Europa e gli Stati Uniti ne erano informati, il ministro degli esteri italiano lo aveva rivelato due giorni fa alla radio, augurandosi un intervento senza danni collaterali.
I palestinesi sono lasciati soli, abbandonati. Il mondo copre i crimini di Israele. Sotto i bombardamenti sfilano i cortei funebri con la partecipazione, a volte composta e a volte arrabbiata, di chi non vuole farsi intimorire e non vuole rinunciare, accettando in silenzio di morire o di sprofondare nell'irrilevanza insieme alla sua causa.
Mentre sullo schermo di Al Jazeera scorrono le immagini in diretta, il portavoce dell'esercito israeliano dichiara che è solo l'inizio della nuova fase della guerra contro il terrorismo, concetto ribadito dal ministro della difesa e segretario del partito laburista Barak.
A differenza di qui, quelle immagini sono arrivate in diretta in milioni e milioni di case in tutto il mondo arabo e islamico, confluite con quelle quotidiane che accompagnano la triste storia del popolo palestinese da sessant'anni, sommando odio all'odio e rancore al rancore e mettendo una pietra tombale sulla credibilità dell'occidente, quello che è pronto a inviare altre truppe in Afghanistan, dopo aver distrutto l'Iraq (per «ristabilire la pace e portare democrazia e libertà»).
Oggi la speranza di una soluzione politica è ancora più lontana. I palestinesi sono sempre più divisi, Abu Mazen ne esce ancora più indebolito e deriso, le istituzioni internazionali vengono ridicolizzate insieme ai leader arabi «moderati». Gli stessi che in sei mesi di tregua osservata da Hamas non sono riusciti a porre fine all'assedio che ha visto negare a un milione e mezzo di palestinesi cibo, acqua, carburante, elettricità e medicine, né sono riusciti a garantire l'ingresso nei Territori occupati all'inviato per i diritti umani del segretario delle Nazioni unite, subito espulso dalle autorità israeliane. La resistenza palestinese contro l'occupazione barbara e più lunga della storia è un diritto legittimo, su questo principio non si possono accettare compromessi se non in presenza di un vero processo di pace, con serie garanzie di efficacia da parte della comunità internazionale, e non di un processo farsa che permette a Israele di annettere altri territori, violare ulteriori diritti, infliggere maggiori sofferenze e ledere la dignità di un popolo, mettendo in ridicolo le sue istituzioni democratiche e rappresentative. Ma il lancio dei missili artigianali Kassam contro Israele entra a far parte di una guerra assurda, che aumenta la sofferenza dei palestinesi e fornisce agli israeliani un alibi per perpetrare crimini, così come rientra in una dinamica malata del rapporto Hamas-Al Fatah. E manifestazione anche della divisione nella regione tra i cosiddetti radicali e moderati.
Allo stesso modo, l'ennesimo massacro fa parte delle dinamiche interne pre-elettorali israeliane. Abbiamo assistito nelle ultime settimane a una gara di estremismi tra i vari esponenti di punta della politica israeliana come parte della loro campagna elettorale. E questo dimostra da un lato l'impermeabilità israeliana alle legittime rivendicazioni nazionali palestinesi con lo snaturamento della questione degli aiuti umanitari, dall'altro lo spostamento a destra della società israeliana, che si affida solo a chi mette in mostra i muscoli e usa parole insensate.
In questo momento in tutto il mondo arabo prende forma una gigantesca ondata di indignazione contro i regimi arabi, che solo nelle ultime ore sono stati costretti a condannare l'aggressione israeliana. Dopo mesi di omertà, il governo egiziano ha mandato ai confini di Gaza le ambulanze per evacuare i feriti ma molti di loro hanno rifiutato di farsi trasportare. Manifestazioni e scontri infiammano la Cisgiordania e anche i palestinesi di cittadinanza israeliana. Israele dichiara che questa guerra è destinata a durare ancora, le fila dei corpi disanimati si allunga nel piazzale dell'ospedale di Gaza e il rombo dei bombardamenti continua. E il fossato tra Occidente e Oriente si allarga a causa della politica israeliana e del sostegno incondizionato a questa politica fin qui dato dagli Stati uniti e dall'Europa. Barack «Hussein» Obama scoprirà mai la disperazione di Gaza e della Cisgiordania? Si accorgerà dell'assottigliarsi delle alleanze americane nella regione? E che non le guerre, ma la soluzione della questione palestinese è all'ordine del giorno? Altrimenti il rischio è che il lancio di scarpe contro i regimi corrotti e insediati potrebbe rivelarsi ben presto un'arma assai spuntata e tardiva.

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