Post-fascisti alla corte di Berlusconi

25.03.2009 13:54

 

Dino Greco


La lunga marcia di Gianfranco Fini iniziò al congresso di Fiuggi, con la messa a punto di una strategia di transizione al post-fascismo. «Fascismo e antifascismo - aveva detto - sono una coppia indissolubilmente unita: insieme vivono e insieme muoiono». L'antifascismo era dunque sopravvissuto per decenni alla caduta del fascismo solo per ragioni internazionali (il mondo diviso in blocchi contrapposti) ed interne (l'antagonismo fra schieramenti ideologicamente irriducibili) oggi del tutto tramontate. Dunque, concludeva Fini, «è tempo che l'antifascismo raggiunga il fascismo, perché entrambi affrontino il giudizio della storia...». E si costruisca, finalmente, una memoria condivisa. La prima conseguenza di questa lettura era che fascismo e antifascismo diventavano - in chiave storica - opzioni equivalenti, separate da un esile diaframma fatto di casualità e condizionato da episodi inscritti nelle biografie personali. E allora, se ne deduceva, perché non riconoscere un risarcimento postumo ai caduti della Repubblica di Salò, dimenticati da una storia a senso unico, scritta (e manipolata, direbbe Pansa) dai vincitori? C'era, in tutto questo, una plateale mistificazione, quella cui si riferiva Giovanni De Luna, a proposito del "pietoso" indugiare sui "ragazzi di Salò", come a voler confinare quella pagina in una dimensione adolescenziale da "ragazzi della Via Paal": tutti i bambini irresponsabili. E come a svilire il significato di una scelta, derubricata ad aneddotica individuale. In quella generale rimozione di senso e di significati si cancellava poi il ruolo storico giocato dalla classe operaia italiana e - per converso, specularmente - quello interpretato dalle classi dominanti, da una borghesia che ad un certo punto non esitò ad abbandonare il terreno della legalità per affidarsi alla soluzione di forza, fino alla dittatura, per risolvere a suo favore un cruciale conflitto sociale: un tema che si è più volte riproposto negli anni della Repubblica, come realtà o come possibilità. Perché questo ci rammentano i tentativi di golpe degli anni '60 e '70 e le trame nere, nonché lo stragismo di Stato sul quale non per caso non si è fatta mai piena luce. Ma nell'a-fascismo degli epigoni di Giorgio Almirante non c'è mai stata una pura e semplice intenzione revisionistica. L'obiettivo vero è stato la messa in discussione della Costituzione repubblicana, la sua identità sociale e la sua legittimazione storica e morale. Ecco perché l'antifascismo non è un prodotto circoscritto e concluso dentro ben precise coordinate storiche, quelle dell'epopea resistenziale, per cui esso avrebbe cessato ormai di dire ciò che aveva da dire in quanto semplice antitesi di un movimento sconfitto e quindi destinato ad eclissarsi con il suo antagonista: puro mito, privo di forza costituente che sopravvive come esercizio celebrativo retorico. Quello di cui merita rivendicare la fecondità è l'antifascismo come enzima permanente di un nuovo Stato e di un nuovo ordine sociale, come nervatura politica di una concezione partecipata e socialmente evoluta della democrazia.

Oggi, tutta An confluisce - senza sforzo alcuno, e si capisce - nel Pdl, retto con piglio padronale da Silvio Berlusconi. Fini, invero - e non so quanti altri con lui - segue un altro tragitto. Egli è andato "oltre" Fiuggi, tanto nel rigetto del fascismo quanto in una ostentata tensione para-costituzionale, nel tentativo di traghettare la destra italiana verso la cultura di una destra europea, certo classista e presidenzialista, ma laica, legalitaria, estranea a pulsioni golpiste. Qualche peraltro tiepida rivendicazione identitaria (la Fondazione) lascerà il tempo che trova. Essa non è null'altro che una modesta concessione che accompagna tutti i processi di scioglimento («Parigi val bene una messa»). Molta parte di An è ampiamente reclutata - armi e bagagli - nel truppone berlusconiano. E' l'uomo di Arcore che comanda e che comanderà nel senso proprio del termine. E' lui che incarna perfettamente quel tragitto di fuoriuscita dalla democrazia costituzionale di cui ha più volte rivendicato la paternità. Del resto, gli elementi costitutivi della cultura fascista, della sua architettura politica e statuale non possono essere riconosciuti soltanto quando si presentano nelle manifestazioni esteriori, nei simboli apologetici che ci rimanda l'iconografia del ventennio (fasci littori, fez, orbace, camicia nera, teschi, manganelli e così via). Bisogna sforzarsi di guardare oltre, più in profondità, e coglierne l'intima realtà nel razzismo, nell'esaltazione della disuguaglianza come elemento naturale, che impone ad ognuno e ad ogni classe di stare al proprio posto dentro uno stato corporativizzato ove è espunta ogni dialettica sociale, ove il conflitto non è un elemento di progresso, ma una malattia da estirpare e a cui fa da contrappunto la retorica militaresca e la sua sublimazione in un qualsivoglia, onnipresente nemico esterno. Il "cesarismo", la mistica del capo che sostituisce alla democrazia il rapporto diretto con le masse, il plebiscitarismo, che educa alla delega, alla deresponsabilizzazione personale, alla spoliticizzazione, al conformismo che formano sudditi, non cittadini. Una democrazia "invertebrata", come nota Eugenio Scalfari. Ed un popolo che dismette la propria sovranità per regredire a "plebe". Non suggerisce niente tutto questo? In fondo, la vera riforma costituzionale (della costituzione "bolscevica") che con metodo si va progressivamente attuando, non prevede forse l'esautoramento del parlamento, l'abolizione della divisione dei poteri da dissolvere nella primazia dell'esecutivo, il superamento dell'universalismo dei diritti, travolto dal federalismo devolutivo di impronta leghista? E ancora: l'attacco frontale al sindacato, alla libertà e al pluralismo dell'informazione, alla scuola pubblica, impoverita e restituita ad un passato che selezionava l'accesso all'istruzione su basi censitarie, non rappresentano forse i tratti inequivocabili di un progetto che ha ripudiato i fondamentali principi della rivoluzione democratica e antifascista? E allora, di cosa dovrebbero lamentarsi mai gli epigoni di Giorgio Almirante? E' del tutto superfluo evocare l'ostentata gratitudine di Licio Gelli che di Berlusconi ricorda essere stato ispiratore e mentore, forse millantando merito eccessivo. Soprattutto rispetto al ruolo ben altrimenti determinante che fu di Craxi e di Dell'Utri (ciascuno per le "sfere" di propria competenza). Quando Assunta Almirante con sicuro istinto politico, indica in Berlusconi - e non in Fini - il vero capo della destra italiana, entra in perfetta risonanza con ciò che pensa una buona parte dei suoi colonnelli, ieri confinati in una storica opposizione anticostituzionale, ma oggi cooptati ed integrati nell'ingranaggio corruttivo del potere berlusconiano. Berlusconi dà oggi forza legale a ciò che è già nella realtà: non solo come capo indiscusso, ma come proprietario del nuovo Pdl, né più né meno di come lo è stato di Forza Italia, coerentemente con l'inossidabile concezione del potere che ha interpretato in questi quindici anni. Sarà il "caudillo" a selezionare la sua corte, a promuovere e a bocciare, secondo gusto e capriccio, al di là di qualche bardatura formale, e in base alle regole intrinsecamente autoritarie ed inappellabili del comando di impresa. L'appuntamento è fra meno di una settimana, quando si assisterà alla plastica messa in scena di questa fagocitazione.


Liberazione 24/03/2009

 

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