
Oltre il mito e l'eroismo la ricerca di un futuro civile
di Iaia Vantaggiato
su Il Manifesto del 27/01/2009
A colloquio con David Bidussa: «Attenti a non istituzionalizzare la memoria»
Nel luglio del 2000 una legge dello stato italiano definì lo sterminio antiebraico a opera dei nazifascisti tema di riflessione collettiva. Ne parliamo con David Bidussa, storico sociale delle idee. Il suo ultimo libro, edito da Einaudi, è titolato «Dopo l'ultimo testimone».
Nel tuo ultimo lavoro sostieni che il Giorno della memoria ha il fiato corto. Perché?
Credo che, a nove anni dalla sua istituzione, il Giorno della memoria sia in crisi come molte altre date del calendario civile. Una crisi dovuta al fatto che - intorno a queste date - non è mai cresciuta una vera coscienza pubblica. In realtà, l'unico effetto che hanno avuto è stato quello di consentire a gruppi nazionali di raccontarsi, di creare un rito, un cerimoniale pubblico in cui narrare di sé in maniera positiva.
Ma si può ridar respiro alla «Giornata»?
Sì, ma a condizione di aprire la discussione su altri temi. Per esempio riprendere la discussione sul perché e in quale contesto quella data sia nata. Il Giorno della memoria viene pensato negli anni '90 con l'intento di individuare un evento collettivo per l'Europa che vada al di là delle singole realtà nazionali e che doti di identità collettiva un continente. Un progetto che, nell'ultimo decennio, è fallito.
Non credi che la banalizzazione del linguaggio abbia contribuito al fallimento?
Assolutamente sì. Ed è una banalizzazione che riguarda tutti gli attori che compaiono in quella scena: gran parte del mondo ebraico quando parla della shoah, una parte della destra italiana che non si misura col razzismo e la xenofobia e un'altra parte della destra che finge di non appartenere alla «zona grigia», al mondo dell'indifferenza. Riguarda, altresì e trasversalmente, la destra e la sinistra italiana nonché il paradigma politico di un attore come la Lega che racconta la storia come complotto di minoranze che opprimono maggioranze e così facendo spiega le proprie sconfitte politiche e culturali. Dentro a ciò c'è l'idea di un comunitarismo politico che è disposto a sopportare le differenze solo per ghettizzarle o per santificarle ma mai per coabitarci.
L'istituzionalizzazione della memoria rischia di nascondere tutta la complessità presente sulla scena della shoah?
Ciò a cui dobbiamo puntare è la costruzione di una consapevolezza storica e di una coscienza pubblica. Detto in altri termini, comprendere il passato vuol dire prendersi in carico voci diverse. Non c'è una versione che tutti ci tranquillizza. Non c'è una «storia narcotico». Sulla scena dello sterminio ci sono figure pubbliche differenti, ruoli e attori. E questi attori - siano essi vittime o carnefici - non sono individui lineari. Una vittima non cessa di essere vittima perché compie atti deplorevoli e un carnefice non è un «non uomo».
Ciò che rifiuti è l'idea di una storia fatta da eroi e antieroi?
Non ha più senso ragionare su «da che parte stiamo». Stare dalla parte delle vittime non vuol dire assumere acriticamente che le vittime sono, in sé, la virtù. Non dobbiamo rimanere delusi da questa consapevolezza. Lo stesso se guardo ai carnefici. Anche qui, i meccanismi che devo indagare non riguardano le azioni di cui si resero protagonisti o cui presero parte perché obbligati ma le giustificazioni che si diedero per dare senso a ciò che stavano facendo.
Esiste un uso politico della shoah?
Assolutamente sì. E a fare un uso politico della shoah sono, insieme, Israele, il mondo arabo e quello occidentale.
Cominciamo da Israele.
Israele ha assunto la shoah come spiegazione della propria origine esattamente come ha fatto il resto del mondo. Lo stato di Israele come atto riparatorio, insomma, come saldo da pagare dopo la tragedia avvenuta in Europa. Ma in questo modo Israele - più che le sue origini - ha raccontato il «mito» di quelle origini.
Origini che, invece, risiederebbero dove?
Per me Israele nasce indipendentemente dalla shoah. Intendo dire che le sue «vere» origini sono rappresentate da una struttura sociale che costruisce il suo apparato finanziario e industriale, la sua articolazione politica interna attraverso la creazione di partiti e sindacati, il suo apparato scolastico e sanitario, cioè le strutture fondamentali con cui una società si trasforma in stato. E c'è dell'altro. Tutte le scuole, ormai, organizzano un viaggio ad Auschwitz ma gli studenti israeliani sono gli unici a entrare nel campo con le bandiere. Cos'è questo se non il tentativo di riappropriarsi di un passato che credi essere solo tuo?
Quanto al mondo occidentale?
Lì l'uso politico della shoah sta nel pensare ad Auschwitz come a un'enclave della storia, un «assoluto» che resta fuori dal corso della storia. Se un episodio terribile viene assolutizzato, tutto è possibile: nulla lo eguaglierà. Se assumi quell'episodio come assoluto ti assolvi da tutte le altre cose che nel presente stai facendo.
Veniamo al mondo arabo.
I palestinesi e parte del mondo arabo hanno, in maniera speculare a noi, un problema non risolto. Noi identifichiamo la fine della II guerra mondiale con due scene - il ritorno della libertà e la fine dello sterminio - ma ci dimentichiamo di una terza scena che non abbiamo mai preso in carico e che si svolge dalle parti di Algeri l'8 maggio del 1945. Quando gli algerini scendono in piazza celebrando la libertà dell'Europa e chiedendo libertà per sé. Ovvero quando chiedono a de Gaulle - con cui hanno collaborato nella Francia libera - di ottenere l'indipendenza. Il risultato è che proprio l'esercito francese uccide, in tre giorni, tra i 15mila e i 40mila algerini in tre giorni. Il mondo arabo, oggi, pensa ai suoi morti e soprattutto pensa che la libertà gli sia stata negata solo perché a riceverla dovevano essere altri. E' qui che ritorna il mito della shoah. Si può ottenere qualcosa, ci si può riscattare solo se si è subita un'oppressione.
Cosa vuol dire oggi riflettere sulla shoah?
Emanciparsi da un discorso che riguardi esclusivamente lo sterminio e pensare al senso dell'agire politico. Riflettere sulla macchina dello sterminio vuol dire interrogarsi sul modo di agire delle società complesse, sulle motivazioni che si danno gli individui che in quelle società operano e su come la complessità di quelle società viene vissuta dagli eredi. Finito il tempo di raccontarsi le storie eroiche di chi è sopravvissuto o quelle furbe di chi si è sottratto al confronto con le proprie responsabilità e i propri e delitti, resta il problema del come si vive insieme dopo. Ciò è possibile solo se resta laico lo sguardo sul passato.
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