
Lavoratori in campo ma la politica latita
di Emiliano Brancaccio
su Liberazione del 02/04/2009
A Parigi cento operai a rischio di licenziamento bloccano l’auto del
patron del gruppo PPR, blasonato leader dell’industria del lusso. A
Grenoble, i lavoratori della Caterpillar trattengono i manager negli
uffici dell’azienda, per costringerli alla riapertura delle trattative
contro il licenziamento di oltre 700 dipendenti. A Pithiviers, pochi
giorni prima, la stessa sorte era capitata al direttore della filiale
francese di una nota azienda farmaceutica americana. La “caccia al
manager” che imperversa in Francia ha suscitato scandalo e imbarazzo
presso i grandi media, ma la verità è che si tratta di una buona
notizia. E’ il segnale che sui luoghi di lavoro inizia a maturare una
consapevolezza: senza mobilitazione, senza lotta, i lavoratori saranno
vittime predestinate della crisi di un sistema che dopo averli
lungamente spremuti ora intende farli fuori senza tante cerimonie.
Altro che scandalo, dunque. Piuttosto, occorre augurarsi che anche in
Italia e nel resto d’Europa i lavoratori trovino la forza necessaria
per opporsi, azienda per azienda, a un’ondata di licenziamenti che si
annuncia pesantissima, e la cui velocità di propagazione sta
oltrepassando persino quella del famigerato 1929. Al tempo stesso,
però, bisogna comprendere che le mobilitazioni sui luoghi di lavoro,
oggi più che mai necessarie, sono insufficienti per indicare una via
d’uscita dalla crisi che realmente tuteli gli interessi della classe
lavoratrice. In questa fase, infatti, i lavoratori in mobilitazione
agiscono sulla base della paura, della disperazione e dell’istinto
naturale alla difesa dell’occupazione. La loro azione a presidio delle
unità produttive a rischio è impetuosa, e spesso efficace.
I lavoratori tuttavia percepiscono una debolezza nelle loro iniziative
che deriva dal fatto che essi agiscono in assenza di riferimenti
politici, un’assenza che a lungo andare potrebbe minare la forza delle
loro rivendicazioni. La sensazione, in proposito, è che vi sia un
clamoroso ritardo nella percezione della enormità della crisi da parte
delle rappresentanze storiche del lavoro, sul versante sia sindacale
che politico. In Italia, per citare un esempio, si è gridato a una
fantomatica svolta “a sinistra” da parte del Partito democratico dopo
che il neo-eletto segretario si è azzardato a proporre una imposta una
tantum sui contribuenti più ricchi al fine di ricavare cinquecento
milioni di euro da destinare ai soggetti maggiormente colpiti dalla
crisi. La proposta è oggi in bella mostra lungo le strade del paese,
su cartelli formato gigante che farebbero ombra persino ai manifesti
delle più celebri campagne berlusconiane. Ma chi si affretta oggi a
lodare questo presunto “nuovo corso” del Pd è a conoscenza del fatto
che cinquecento milioni rappresentano appena lo zero virgola tre per
mille del reddito nazionale? Una somma persino difficile da
pronunciare, la cui ridicolaggine solleva dubbi non sulla buona fede,
ma sullo stesso senno dei fautori dell’iniziativa.
Il Pd nostrano non è il solo partito imbambolato di fronte al tracollo
sistemico in atto. Tutte le forze del socialismo europeo si mostrano
incapaci di reagire all’emergenza storica che gli si para di fronte, e
che contraddice totalmente il fideismo liberista al quale si erano
pressoché all’unisono votate. Le destre approfittano della paralisi
socialista gettando fumo negli occhi dei lavoratori: un giorno
mettendo gli impotenti prefetti a far finta di vigilare sulle
erogazioni delle banche foraggiate, un altro lamentandosi
dell’immoralità degli speculatori finanziari, e sempre puntando a
dividere la classe lavoratrice, privati contro pubblici, precari
contro protetti e soprattutto nativi contro immigrati. In una fase
decisiva per il corso futuro degli eventi, insomma, ci troviamo di
fronte a un immane vuoto politico, che rischia di vanificare le
sacrosante azioni rivendicative dei lavoratori che ogni giorno
riempiono le cronache dei territori colpiti dalla crisi. Per sostenere
queste mobilitazioni occorre allora un cambio di mentalità politica.
Occorre cioè che si interpreti la crisi non come il frutto di una
diffusa immoralità finanziaria, ma come l’esito di un sistema
contraddittorio, che espande enormemente la capacità produttiva dei
lavoratori e che al tempo stesso controlla rigidamente la loro
capacità di spesa. Si tratta di un sistema giunto al capolinea, la cui
agonia distruttiva non potrà certo esser mitigata dai pannicelli caldi
dei democratici nostrani o dalle improbabili quadre del G20, fallito
ancor prima di iniziare.
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