L'Alcatraz di Lampedusa

27.01.2009 13:59

di Stefano Liberti

su Il Manifesto del 27/01/2009

Da base della Nato a Centro di detenzione per immigrati. Viaggio nella Loran, dove in un edificio fatiscente e semi-abbandonato sono già state trasferite alcune donne. Mentre gli abitanti dell'isola si preparano allo sciopero generale

Nove chilometri dal centro cittadino, in fondo a una strada che oltrepassa la paradisiaca isola dei conigli e corre verso ovest. Eccola la base Loran, il pomo della discordia, l'angolo di Lampedusa dove il ministro degli interni Roberto Maroni vuole costruire a tutti i costi il nuovo centro per rimpatriare gli immigrati irregolari direttamente dal punto di arrivo. Strana storia quella di questa base in fondo al mondo, posta nel luogo più remoto della più lontana isola italiana.
Già nel 1986 assurse agli onori delle cronache quando il leader libico Muammar Gheddafi spedì un paio di missili sull'isola per vendicare il bombardamento di Tripoli ordinato da Ronald Reagan. I razzi caddero in acqua, ma l'opinione pubblica nostrana scoprì che a Lampedusa c'era una base Nato. Una base Loran per l'appunto, acronimo di Long Range Radioaid to Navigation, un sistema di triangolazione usato per orientarsi in mare. Abbandonata dall'Alleanza atlantica, la struttura è stata affidata ai corpi giunti sull'isola Pelagia per gestire la nuova emergenza: l'immigrazione clandestina. La guardiacostiera ci ha spostato alcuni materiali e vi ha fatto alloggiare un gruppo di suoi uomini finché, la settimana scorsa, gli ospiti sono stati spostati in fretta e furia in un albergo per consentire la creazione del nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie).
Un centro già aperto, secondo quanto dichiarato con espressione solenne e soddisfatta da Maroni in uscita dal consiglio dei ministri di venerdì, ma in cui sono state fatte alloggiare solo donne tunisine e nigeriane, la maggior parte delle quali sono poi state trasferite ieri sul continente. Un edificio a due piani in condizioni disastrate, l'intonaco che cade dai muri, il controsoffitto tutto da rifare, una quindicina di piccole stanze semi-abbandonate in cui sono ancora appesi poster un po' osé attaccati da qualcuno dei suoi passati occupanti. Le donne sono state spostate qui giovedì notte. «Per decongestionare il centro di prima accoglienza in cui erano ospitate», assicura il prefetto Mario Morcone. «Per nascondere alla delegazione del Partito democratico la promiscuità raggiunta nel Cpa», ribattono le malelingue. Fatto sta che quella notte, con il favore delle tenebre, le donne africane sono state spostate in questa struttura fatiscente e messe a dormire come meglio capitava. Sono rimaste al piano terra, in una grande camerata, e spostate nelle stanze solo la mattina dopo, tanto che la delegazione del Pd è piombata nel centro proprio mentre si stavano organizzando le camere.
Al piano terra un piccolo bar è stato trasformato in un'infermeria d'emergenza. Nel grande salone antistante giacciono vecchie librerie in disuso, sacchi a pelo militari e cumuli di materassi. Sono stati proprio quei materassi a far capire alla popolazione lampedusana che il sito scelto per il nuovo centro era quello dell'ex caserma della Nato. «Un giorno abbiamo visto arrivare aerei che scaricavano materassi e brandine e camion che li trasportavano verso ponente», racconta Giusi Nicolini, responsabile della sezione locale di Legambiente. «E abbiamo capito cosa stavano architettando». Così la popolazione si è mobilitata, alcuni esponenti del comitato Sos Pelagie hanno fatto i blocchi e impedito il trasferimento dei migranti, che sono stati spostati di notte.
«Noi siamo contro la creazione di un carcere a cielo aperto sulla nostra isola. Lampedusa non può diventare una nuova Asinara», continua a ripetere il sindaco Bernardino De Rubeis alla folla sempre più agitata. La popolazione lampedusana è totalmente contraria al nuovo centro e ha rinnegato e fischiato l'ex vice-sindaco e senatrice leghista Angela Maraventano, che ha difeso domenica in piazza il piano di Maroni. La creazione di un Cei a Lampedusa vorrebbe dire che i migranti arrivati sarebbero trattenuti anche mesi qui, in attesa della loro identificazione e dell'espulsione. «Una eventualità impossibile per Lampedusa», ragiona Nicolini. «Qui non ci sono i servizi sanitari essenziali per i locali, figuriamoci per tutti gli immigrati che arrivano». Il sindaco e tutta la popolazione non sono disposti ad accettare un nuovo centro e dicono di non poter concedere allo stato più di quel Centro di prima accoglienza (Cpa) della contrada Imbriacola in cui gli immigrati che arrivano via mare sono trattenuti teoricamente due giorni prima di essere spostati in altre strutture sul territorio nazionale. Il ministro Maroni e la "pasionaria" Maraventano, sono invece per l'apertura del Cie alla Loran «per mandare un segnale forte ai clandestini e ai trafficanti».
A vederlo da dentro, questo «segnale forte» sembra assai flebile. Il posto è piccolo e poco attrezzato. Nelle stanze, potrebbero entrare massimo una cinquantina di immigrati. Per creare un Cei degno di questa sigla, ci vorrebbero ampi lavori di ristrutturazione. Ma dopo lo scoppio della rivolta nessuna ditta ha accettato di accettare la commessa, tanto che il Viminale si è dovuto rivolgere al genio militare. Si parla di installare container sopra la piscina vuota, coperta opportunamente con una colata di cemento. Ma anche così, il massimo di permanenze non potrebbe superare il centinaio. Senza contare il fatto più importante: la maggior parte degli immigrati che arrivano a Lampedusa non si può espellere, o perché ha diritto a ottenere l'asilo politico o perché proviene da paesi con i quali non sono stati firmati accordi bilaterali. Ma quali rimpatri? Che minchia disse u' ministro?», tuona uno dei manifestanti in piazza. «Le carcere fatele al nord. Anche lì spazio ce n'è», indica uno dei cartelloni che campeggia sotto il municipio, dove la bandiera italiana è stata opportunamente ammainata e listata a lutto.
Maroni assicura che il Cie aprirà solo temporaneamente, «fino al termine dell'emergenza», e promette 40-45 milioni di euro all'isola in cambio dell'accettazione del suo piano. Ma per il momento gli abitanti non sono disposti a cedere. «Lampedusa non è in vendita», grida De Rubeis dal palco in piazza. E gli applausi scendono a valanga, mentre sulla strada di ponente i carabinieri bloccano il passaggio per impedire a chiunque di avvicinarsi alla base, che si staglia lontana come una cattedrale nel deserto, con le sue ospiti temporanee del tutto ignare della battaglia che si sta combattendo intorno alla loro residenza temporanea.

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