
La "missione" di Obama
di Marco Sferini
su Lanterne rosse.it del 21/01/2009
Una indigestione di fatti certi e fatti non ancora certi: è più o meno questo il succo che esce dalla spremitura delle idee dei molti politologi ascoltati in queste ore dalle dirette tv e dai commenti su Internet sulla scia del giuramento di fedeltà alla Costituzione degli Stati Uniti d'America del loro 44esimo presidente, l'afroamericano democratico Barack Obama.
George W. Bush se ne va. Sale su un elicottero verde che si alza nel cielo di Washington e che non si porta ancora via, però, tutti gli orrori, i crimini, le guerre e le torture commesse in nome e per conto della sua presidenza bellica durata otto anni. Abu Ghraib, Guantanamo, il regime del terrore permanente dopo l'11 Settembre 2001, le leggi speciali del "Patriot Act", la necessità della menzogna delle armi chimiche e di distruzione di massa di Saddam Hussein per impadronirsi della regione tra i due fiumi culla della civiltà e ricca del petrolio di cui gli Usa necessitano per i prossimi decenni... Questa eredità di morte, di annichilimento del futuro è quanto eredita il primo presidente "di colore" che degli Usa.
Alcuni analisti dicono che basterebbe anche solo questo elemento di cromatura della pelle per dare profondità ad un solco tracciato tra l'era imperialista di Bush e Cheney e il nuovo corso di Obama e Biden.
Verso la conclusione del suo discorso, il presidente appena proclamato ha fatto in effetti cenno alla discriminazione razziale, quando ancora una sessantina di anni fa ai suoi progenitori era impossibile sedersi in un ristorante ed essere serviti come tutti gli altri cittadini della potente democrazia americana.
Ed in effetti è proprio la distinzione forte tra il bianco e il nero, tra il tutto e il niente che oggi salta agli occhi: non si tratta solamente di colori, come non si è mai trattato solo di colore per i razzisti del Ku Klux Klan, per tutti coloro che hanno sempre e solo visto in chi aveva una diversa pigmentazione della pelle un elemento di subordinazione fisiologica di un individuo rispetto a quello di "razza bianca".
Ma anche una bella rondine, come può essere Barack Obama, può non fare primavera: nessuno infatti azzarda il pensiero che affermi sconfitto il razzismo, debellato l'odio dei bianchi verso i neri e tutte le altre contrapposizioni di natura sessista, religiosa, di classe sociale.
L'elezione prima, e l'insediamento poi, di un giovane presidente "di colore" cambia indubbiamente i costumi e i punti di riferimento di molti americani, anche di quelli che sino a poco tempo fa erano ancora saldamente ancorati al pregiudizio razziale, come a qualunque altro.
Perchè purtroppo l'esempio conta più del buon senso, del rapporto di uguaglianza che ognuno di noi dovrebbe sentire nel confrontarsi con l'altro da sé. Se un presidente degli Stati Uniti è "nero", allora sarà sempre più difficile sostenere che un "nero" è un inferiore, una anomalia, una differenza negativa rispetto a quella presuntuosa "normalità" contraddistinta dal colore bianco della pelle.
Su questo punto credo che si possa impostare un ragionamento per ora generalista e vago che punti a fare di Obama un elemento di speranza, ma che non deve illuderci. Non siamo davanti ad un socialista, ma di certo ad un riformatore, ad un uomo che a cuore le sue origini modeste e che, da democratico e liberale, avrà con il suo governo il coraggio di esprimersi in favore della classe media, provando a risollevare le sorti di una economia che vede le grandi banche e le assicurazioni in disgrazia presso qualunque santo del capitalismo e che coinvolge l'intero sistema globale di relazioni danarose.
Obama nel suo discorso accontenta tutti: promette la sconfitta del terrorismo ma evita qualunque riferimento a prese di posizione che mettano gli Stati Uniti contro altri paesi. Cerca la via diplomatica, cerca anche in questo caso l'unità della sua nazione, il consenso pressochè unanime per una politica che, nella lunghissima campagna elettorale a stelle e strisce, promette il ritiro dall'Iraq e una nuova stagione per il segreteriato di stato.
C'è un'aurea "divina" nelle sue parole: si rifà alle "Sacre scritture" quando invita gli americani a "mettere da parte gli infantilismi", ad essere tenaci. Un tono messianico che si addice a chi sa che sta per intraprendere un cammino che viene dipinto come "la nuova era", come la fine del tunnel guerrafondaio di Bush e l'inizio dell'autostrada solare del progresso e della rinascita sociale, economica e civile dell'America.
Il nome di una nazione riammesso tra i nomi pronunciabili con dignità, dice un commentatore in tv: un nome che qualche tempo fa era sinonimo solo di soldati, invasioni, "democrazia esportata" e prigioni piene di torturati perchè colpevoli di essere di fede islamica o nati in un paese dove quella fede è professata.
Obama, si sa, è profondamente credente. E forse le sottolineature teistiche delle sue parole sono frutto anche di un sentimento di ringraziamento nell'alto dei cieli. Probabilmente sono anche un modo, tutto politico, per affratellare ancora di più gli americani tutti nel momento del passaggio, nell'attimo difficile del salto dalla disperazione alla speranza.
Nell'America di Obama c'è lavoro e impegno per tutti: c'è un lavoro da fare per rimanere "la nazione più prospera, più potente della Terra"; c'è lavoro e impegno per tutti, non solo ideale ma materiale, occupazione e produzione. Perchè il neopresidente afferma di voler riempire la repubblica stellata di infrastrutture, di voler usare la natura del sole, delle acque e dei venti per produrre energia e per donare una vita ecologica a tutti.
Poi consacra gli Stati Uniti a paese unicamente vero tra tutti, unicamente giusto. "Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carriarmati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. Al contrario, sapevano che il nostro potere cresce quanto più lo si usa con prudenza."
Capiamo il riferimento al "comunismo". Per un americano è normale mettere sullo stesso piano quelle che lui considera due dittature parallele, due esempi di oppressione e di vedere la terza via solo nella libertà dei padri fondatori propri, nell'esempio che gli Usa devono comunque sempre essere per il mondo. E, "con prudenza", Obama lo dice del tutto chiaramente: "il nostro potere cresce", dice, se usato non con prepotenza, ma con la pazienza, con un uso scaltro.
Qualche richiamo all'autosufficienza nel suo discorso c'è, ma non per dire che gli Usa sono tali e quali qualunque altro stato del mondo. La supremazia statunitense non è in discussione. La missione guida dell'America tanto meno. Non cambia il merito, ma semmai il metodo.
Se Bush voleva un mondo con il marchio dell'aquila con le frecce sopra, Obama fa a meno dell'evidenza del marchio, ma intende mantenere l'uguaglianza americana come modello per tutti gli altri esseri umani.
Un colpo al cerchio dei pacifisti e uno alla botte dei veterani delle guerre poi, quando parla delle avventure belliche di Kabul e Baghdad: "Cominceremo a lasciare responsabilmente l'Iraq alla sua gente, e a forgiare una pace duramente guadagnata in Afghanistan."
Che gli Usa lascino l'Iraq distrutto e violentato, derubato e saccheggiato alla sua gente è triste consolazione. Che poi se ne vadano dall'Afghanistan dicendo di aver lì forgiato una "pace duramente guadagnata" è, questa sì, forse l'unica vera spudorata menzogna del discorso del 44esimo presidente.
Ma si sa... il presidente che vuole farsi largo in mezzo ai rovi del potere, non deve spiacere a troppi vecchi delle stanze dei bottoni, visto che ancora non può far piacere a molti nuovi che le occuperanno.
Fin qui il gioco è semplice. La prova dei fatti ci dirà quanto del discorso "aureo" e "divino" di Obama era traduzione di propaganda e quanto invece era un intendimento vero e sincero.
Insomma, a parte i toni e la fierezza delle parole, mi piace pensare che Barack Obama sia per gli Stati Uniti, ma anche per il mondo, un gradino di avvicinamento ad una politica che lasci i popoli liberi di scegliere il proprio destino e che non debba più assistere alle carceri segrete della Cia, ai rapimenti in mezza Europa, in Medio Oriente e ai trasferimenti con i voli fantasma nelle prigioni delle torture e che, magari, veda finire anche - ma questo è un sogno del sogno... - l'embargo a Cuba. Perchè se è vero quello che ha detto oggi il presidente degli Stati Uniti d'America, la loro funzione di "guida" del mondo contrasta con quei princìpi di libertà tanto proclamati ed esaltati con la statua che ti accoglie a New York.
Raccolga le parole di Ernesto Che Guevara all'Onu, il presidente Obama. Qualcuno gliele riferisca se non le ha mai sentite: "Non vogliamo nulla, vogliamo solo essere lasciati in pace.". Quella pace che ora, forse, con lui gli Usa possono vivere senza dimenticare il loro tremendo, triste e tribolato passato di guerra.
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