La crisi dell'auto abbatte il tabù

18.01.2009 13:51

di Tommaso De Berlanga

su Il Manifesto del 17/01/2009

L'auto è la merce-pivot del capitalismo del dopoguerra. Difficile persino quantificare esattamente il suo peso nel Pil dei paesi che la producono; così come il peso occupazionale, soprattutto indiretto (assistenza, assicurazioni, manutenzione, concessionari, carburanti, garage, parcheggi, ecc). L'ipotesi che la produzione automobilistica possa inchiodarsi, mentre contemporaneamente gli Usa - ma anche cinesi, indiani e giapponesi - cominciano a iniettare soldi pubblici nelle «loro» fabbriche, ha fatto crollare in un attimo il tabù fondativo della Commissione europea: il «no» agli «aiuti di stato». La decisione concordata ieri dai ministri dell'industria dei 27 paesi Ue segue di poco quella - analoga - presa in favore delle banche. La buona notizia è che neppure la Ue riesce più a praticare l'ideologia dello «stato minimo», che abbandona il campo dell'economia al «libero mercato». Quella brutta è che si cerca di contenere questa rottura nei limiti di una «sospensione temporanea», in attesa che il meccanismo riprenda il suo corso normale («non stiamo discutendo un revival delle tradizionali politiche industriali», ha premesso il commissario addetto, Gunter Verheugen).
Si permettono infatti aiuti «in modo coordinato», ma senza approntare un piano comunitario di intervento. Né si prevedono «interferenze» sui piani di sviluppo delle singole imprese. L'unica condizione è relativa all'«innovazione», mirata all'«efficienza energetica e alla riduzione di CO2».
Se ci si ferma qui è un'occasione persa, perché una crisi sistemica non è solo «distruzione», ma anche occasione di «creazione» di un nuovo modello. Quel che sei mesi fa sembrava impensabile oggi viene fatto. E sembra persino poco. Affrontare questa occasione, prima che si tramuti in emergenza sociale drammatica, richiede però un progetto di dimensioni e ambizioni adeguate. La classe politica europea, selezionata tramite imperativi neoliberisti e manipolazioni mediatiche, è però al di sotto della soglia, quanto a competenze minime necessarie.
Un piano continentale di «investimenti pubblici» dovrebbe prevedere almeno due vincoli: la salvaguardia dell'occupazione (e delle competenze costruite in 100 anni di industria) e lo sviluppo di progetti in grado di portar fuori l'automobile dal rapporto di dipendenza con il petrolio. Ma la gestione di un simile salto non può davvero esser delegato alla buona volontà - per quanto «coordinata» - di singoli stati nazionali in silenziosa competizione fra loro, che assistono passivamente industrie a loro volta in reciproca competizione. Per la sopravvivenza.
Una crisi sistemica di questa portata è un'occasione formidabile per delineare una politica industriale a livello quantomeno continentale. Sarebbe il nucleo di uno «stato europeo» capace finalmente di andare oltre l'algida tecnocrazia contabile nata intorno alla sola moneta unica. Uno stato attivo e intelligente sul piano economico e sociale. Vi sembra chiedere troppo?

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