
La crescita è azzerata
di Francesco Piccioni
su Il Manifesto del 29/01/2009
A rischio 50 milioni di posti di lavoro. Ma anche chi lavora è «working poor»
La frana è diventata così vistosa che persino l'Fmi se n'è accorto. L'istituzione globale guidata dal francese Dominique Strauss-Kahn ha diramato ieri le sue foschissime previsioni sui prossimi due anni. Di recessione per tutti, tranne - forse - per la Cina, comunque molto rallentata nella sua corsa. Nel 2009 la «crescita» globale sarà ridotta a zero (0,5%), cosa che non si verificava dal 1945 (compresi i mesi di guerra!). Soltanto due mesi fa le «stime» immaginavano un +3%. Per l'Italia andrà molto peggio (-2,1%), così come per il resto dei paesi avanzati. Ma, avverte l'Fmi, potrebbe verificarsi una situazione peggiore, se la spirale «perdite finanziarie-fallimenti nell'economia reale» non venisse bloccata in tempo. La chiave di volta viene individuata nel risanamento del sistema bancario, senza cui «non ci sarà mai nessuna ripresa economica». Anzi, «è più efficace spendere un euro nel settore bancario, piuttosto che per ponti o scuole». Da un fondo monetario non ci si può aspettare altro. Anche se poi le perdite dovute «al deterioramento degli asset originati negli Usa» (in un solo paese, dunque) sono calcolate ora in 2.200 miliardi di dollari (il 13% del Pil, e il 50% più del calcolo precedente). Fare stime di questi tempi, ammette l'Fmi, è un po' come giocare i numeri al lotto. L'azione dei governi, che pure viene invocata, può infatti combinare altrettanti disastri di quel che pretende di curare. Bisognerebbe che fossero «ampie e coordinate a livello internazionale». Insomma, ci vorrebbe un «governo» mondiale in grado di ricapitalizzare le banche (ma senza «nazionalizzarle»), depurare i patrimoni dei titoli «tossici» (e non si scarta l'ipotesi di bad bank apposite con denaro pubblico), fissare regole globali chiare e «politiche finanziarie comuni». Lo scopo è esplicito: ripristinare le condizioni precedenti alla crisi (libertà totale per i capitali), a cominciare dalla inafferrabile «fiducia». Finora l'azione degli stati risulta incoerente, a livello sistemico. «Hanno stabilizzato alcune istituzioni», ma con «rischi di distorsione nell'allocazione del credito»; molti operatori decidono infatti di «uscire dai mercati che non ricevono trattamenti speciali». Avviene soprattutto nei «paesi emergenti», dove i capitali occidentali stanno fuggendo a gambe levate e gli stati nazionali - precedentemente svuotati - non hanno risorse per «stimolare» la propria economia. In compenso ci sono alcuni speculatori che se la passano maluccio: il patrimonio degli hedge fund si è dimezzato in un solo trimestre, l'ultimo del 2008 (e già prima aveva subito perdite pesantissime). Chi starà sempre peggio, manco a dirlo, sono i lavoratori. Senza alcuna distinzione di continente, colore, mansione e qualifica e tipo di contratto. L'Organizzazione internazionale del lavoro - agenzia dell'Onu - ha cercato di tradurre le previsioni teoriche in conseguenze sociali realistiche. Ha perciò disegnato tre scenari in cui, bene che vada, quest'anno salteranno tra i 18 e i 50 milioni di posti di lavoro. Si concentreranno, per ovvie ragioni, soprattutto nei paesi più industrializzati e a costo monetario del lavoro più alto. Nel 2008, infatti, il prezzo più alto è stato pagato da queste aree, dove il tasso di disoccupazione è salito dal 5,7 al 6,4%; mentre i disoccupati «fisici» sono aumentati di 3,5 milioni, raggiungendo la «modesta» cifra di 32,3 milioni). A cascata, le persone che rischiano di finire in povertà (calcolata secondo gli standard un po' sparagnini dell'Onu) saranno almeno 200 milioni. E non si tratterà tanto di disoccupati (la cui percentuale globale potrebbe arrivare al 7,1%), quanto di lavoratori attivi il cui salario è però insufficiente a mantenere se stessi e le proprie famiglie. I working poor potrebbero perciò diventare 1,4 miliardi (il 45% del totale). E non fa certo da contraltare il diffondersi mondiale della precarietà contrattuale, che dovrebbe a questo punto raggiungere il 53% di tutta la popolazione occupata. La «deflazione salariale» è alle fondamenta di questa crisi. Non sarà con il suo aggravamento che potrà essere risolta.
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