
Indesit mette a rischio 600 posti di lavoro. E scatta lo sciopero
di Sara Farolfi
su Il Manifesto del 04/02/2009
Per ora è un'«ipotesi», ma non per questo fa meno paura. La Indesit, multinazionale italiana dell'elettrodomestico, ha annunciato ieri ai sindacati del settore la possibilità di chiusura per lo stabilimento di None nel torinese dove lavorano 600 persone, in gran parte giovani e donne, molti dei quali monoreddito. Una bomba sociale per un territorio, la provincia di Torino, già terremotato da chiusure e cassa integrazione. Per tutta risposta i sindacati (Fiom, Fim e Uilm) hanno proclamato due ore sciopero nei 7 stabilimenti italiani del gruppo - dove lavorano complessivamente 5 mila persone - mentre il prossimo incontro azienda e sindacati è stato fissato per il 24 febbraio.
La multinazionale - l'unica italiana, nel settore degli elettrodomestici - guidata da Vittorio Merloni (fratello di Antonio, titolare della Antonio Merloni, l'azienda in crisi strutturale che sta terremotando il marchigiano a suon di cassa integrazione) starebbe valutando l'ipotesi di spostare la produzione di lavastoviglie - oggi a None - nello stabilimento di Radonisko in Polonia, avviato a fine 2008. Una delocalizzazione bella e buona alla ricerca di costi più bassi, in un settore, quello degli elettrodomestici, dove i processi di «ricollocazione produttiva» non sono certo una novità, avviati dalle grandi multinazionali (Whirpool, Electrolux, Candy...) già da diversi anni. In gran parte le produzioni sono state spostate proprio in Polonia, che perciò oggi si presenta come uno dei paesi nell'est Europa con la maggiore capacità produttiva e con una consistente rete di fornitura. La stessa Indesit occupa lì circa 2000 lavoratori.
L'elettrodomestico - che nel paese dà lavoro ad almeno 150 mila persone, considerando anche la componentistica - è in crisi nera. Non si tratta di numeri da automobile certo, ma il calo di mercato (e non solo per Indesit) si è fatto sentire, in misura di un 15 - 20% secondo la Fiom. In una crisi generalizzata però, che porterà al ricorso alla cassa integrazione per tutti gli stabilimenti italiani del gruppo, «la produzione di lavastoviglie è proprio quella meno in sofferenza», dice Maurizio Landini (Fiom). Frigoriferi e lavatrici hanno un mercato più stabile, trattandosi di elettrodomestici «di sostituzione» - che si comprano cioè più raramente, in sostituzione di ciò che è vecchio o non funziona più e che non per caso più di altri sono stati oggetto di delocalizzazioni - mentre la lavastoviglie è un prodotto che gli addetti ai lavori pensano in potenziale crescita: «Perciò chiudere lo stabilimento di None, l'unico italiano dove si producono lavastoviglie, è un controsenso», spiega Landini. Senza considerare il fatto che il gruppo - che nel 2007 ha registrato un fatturato pari a oltre 3 miliardi di euro, producendo più di 15 milioni di apparecchiature elettrodomestiche, 7 milioni delle quali negli stabilimenti italiani - non ha mai chiuso (nè pensato di farlo) stabilimenti in Italia.
«Colpisce che l'annuncio arrivi proprio in un momento di crisi in cui da parte degli imprenditori dovrebbe esserci un sostegno all'economia del paese - commenta il segretario della Fiom torinese, Giorgio Airaudo - Il territorio torinese, già gravato dalla crisi dell'auto e dalla cassa integrazione, non può sopportare la chiusura di uno stabilimento di queste dimensioni, soprattutto se diversificato dall'auto e con un prodotto innovativo».
«E' necessario che il gruppo confermi le scelte di politica industriale fatte in questi anni e punti alla qualificazione dei prodotti e dei processi, alla valorizzazione delle competenze e degli stabilimenti in essere e alla difesa dell'occupazione», scrivono nel comunicato unitario Fiom, Fim e Uilm.
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