Il dopoguerra di Gaza tra macerie e speranza

23.01.2009 13:39

di Francesca Marretta

su Liberazione del 23/01/2009

Saja, avvolta in un asciugamani bianco intorno a cui è stato avvolto un plaid di lana, è nata sotto le bombe di Gaza, tre settimane fa. Il colore degli occhi dei neonati è indefinito, ma quelli di Saja ricordano gli occhi grigio-verde della mamma, Azhar Mahrouf, trentasette anni. Saja è la sua ottava bambina.
Azhar aveva una casa grande a Beit Lahya. Ci teneva un corredo che in altri tempi sarebbe passato alle sue figlie. «Avevo tante coperte da poterle prestare ai vicini». Il drappo in cui è avvolta la sua neonata arriva dai carichi umanitari con la scritta Save the Chidren. E ora, invece che nella grande casa di Beit Lahya, Azhar vive nella scuola elemetare A&E dell'Unrwa, l'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, a Jabalya, nord della Striscia di Gaza. Questa scuola è uno dei punti di smistamento per i profughi paestinesi del secondo millennio. Che come quelli del 1948, in gran numero, finiranno per vivere in tende bianche, finchè non gli sará ricostruito un tetto sulla testa. Azhar Mahrouf ha avuto le doglie nella stessa aula in cui ora dorme assieme al marito, i figli e un'altra famiglia allargata. Trenta persone in pochi metri quadrati, a dormire su materassi sottili poggiati al pavimento, senza nessuna intimità.
I bagni della scuola si trovano al lato dell'ampio cortile rettangolare, lungo il quale, ci sono rampe di scale che conducono alle aule. Ai bagni delle donne, dieci come quelli per gli uomini, c'è chi si lava i piedi nel lavandino. Alcune donne fanno il bucato. «I nostri addetti alle pulizie hanno moltiplicato i turni, cerchiamo di fare il possibile» dice il giovane "shelter manager" dell'Unrwa, che preferisce mantenere l'anonimato. E' stato lui a portarci nell'aula in cui si trova la piccola Saja. «La madre ha resistito a lungo prima di andare all'ospedale. Si vergognava di non avere abiti per cambiarsi. Ma sopratutto di non avere abiti da mettere indosso all'ultima nata dei suoi otto figli».
Nel cortile della scuola ci sono gruppi di donne sedute su cumuli di coperte accanto a pacchi di aiuti umanitari. I bambini sono tantissimi. Come dappertutto a Gaza.
La famiglia Abu Freha, Mansur 29 anni, la moglie Karina 27 ed i tre figli di quattro tre e un anno, sono arrivati durante uno dei cessate il fuoco umanitari di tre ore. Mansur era senza lavoro da cinque anni. Prima, quando c'erano a Gaza industrie che producevano per il mercato israeliano, lavorava nella zona industriale di Eretz. Ora, oltre che disoccupato, è senza casa. Poco più avanti incontriamo Marwan Hussein, 33 anni, cappellino di lana in testa, tuta da ginnastica e scarpe di gomma. Ha spezzato il braccio al figlio di sei mesi, Firas, per proteggerlo dal bombardamento che ha danneggiato casa sua. Il fratello e la cognata che abitavano al piano di sopra, sono feriti in maniera seria e sono ricoverati in ospedale. Fa il falegname. Ma anche la bottega è andata in frantumi. «Dobbiamo andarcene da qui. Dice. Meglio stare nelle tende quando ce ne daranno una».
Anche loro compileranno una "emergency shelter Id card". Nuova nuova carta d'identità per nuovi rifugiati palestinesi. Al momento sono diciotto i rifugi sponsorizzati dall'Unrwa, di cui fanno parte anche scuole statali. Ci vivono circa 200mila persone.
Hamas ha annuncuato ieri che il governo, che ancora è in piedi a Gaza, nonostante Israele gli abbia sferrato contro una guerra che ha dichiarato di aver vinto, «a partire da domenica pagherà quattromila euro ai proprietari delle case che sono state completamente distrutte, duemila per quelle parzialmente distrutte, mille euro alle famiglie di ogni martire e 500 per ogni persona ferita». In totale, ha precisato il portavoce di Hamas al-Nounou -parlando ad una conferenza stampoa a Gaza stanzieremo «35-40 milioni di dollari».
Percorrendo la strada che dal nord ci porta verso Gaza City, oltre agli edifici bombardati, che sull'arteria di collegamento principale sono meno evidenti rispetto alle zone adiacenti al confine con Israele, notiamo la spazzatura, che puzza, in alcuni punti, anche col finestrino chiuso, tanto è rimasta a macerare al sole. Meglio non mangiare Makluba, uno dei piatti tradizionali della cucina palestinese, a meno di essere certi che sia cucinato con manzo e non carne di capra. Gli ovini a pelo lungo che si vedono nei campi profughi di Gaza, brucano allegramente nella mondezza. La situazione della sanità pubblica sembra molto migliore al centro di Gaza City. Dove fa impressione il parlamento bombardato. I valichi sono riaperti. Nei negozi si trova da mangiare e i carretti della frutta e verdura si vedono a Jabalya, come a Rafah. Il problema resta sfamare oltre la metá di un milione e mezzo di palestinesi che vive grazie agli auiuti umanitari dell'Unrwa. A cui va consegnato e cucinato il cibo nelle scuole e poi nelle tende. L'Unrwa sostiene che i carichi in ingresso sono assolutamente insufficienti. Per strada, a Gaza, si vedono un po' ovunque esposti sui marciapiedi fornellini verdi a Kerosene. Per moltissimi abitanti di Gaza, fanno ormai da cucina. Ieri è finalmente arrivato il gas per cucinare.
Al campo di Nusairat, a sud della Striscia c'era una fila enorme di uomini che aspettavano di riempire bombole. In giro non si vedono molti uomini di Hamas, eccetto qualche auto della polizia del movimento islamico ed i vigili agli incroci. Ma l'impressione è che tutto sia rimasto come prima. Hamas comanda ancora a Gaza. Gli ospedali funzionano ad un ritmo umano, anche se i medici palestinesi appaiono stanchi. Per fortuna, dicono, molti colleghi stanieri sono arrivati per dare una mano. Allo Shifa Hospital, principale ospedale di Gaza, non ci sono più feriti nelle corsie. Molti feriti, ci spiegano, sono usciti nei giorni scorsi dal confine con l'Egitto, per essere ricoverati tra Medio Oriente ed Europa. Il Dottor Husam Elwakel, 42 anni, camice verde, cuffia, e ciabatte di carta che gli ricoprono le scarpe, è arrivato dal Cairo. Racconta di aver assistito tra Gaza e Khan Younis ad almeno seicento amputazioni. In moltissimi casi dovute ai crolli degli edifici. Ci suggerisce di andare a dare un'occhiata al reparto separato dove sono ricoverati gli ustionati. «Così vedete gli effetti delle bombe al fosforo». Qui troviamo la signora Sbah Abu Halib, 45 anni. Ha ustioni agli arti inferiori e alle braccia. Nel bombardamento che le ha lasciato orrende bruciature, sono morti cinque suoi figli. La accudisce il fratello. I medici dicono che potrà recuperare solo per un 45%.
Mentre gli ospedali della Striscia continuano a lavorare a pieno ritmo, la clinica da campo israeliana aperta domenica scorsa al valico di Erez chiuderà per mancanza di pazienti.
«E tu andresti a farti medicare da uno che ha cercato di ammazzarti?», chiede Nafitz, il tassista.

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