Il centro degli abusi, col placet del Viminale

19.02.2009 13:36

di Omeyya Seddik

su Il Manifesto del 19/02/2009

Il centro di identificazione ed espulsione (Cie) per immigrati sprovvisti di titolo di ingresso sul territorio italiano di Contrada Imbriacola a Lampedusa ha preso fuoco. In seguito a uno scoppio di tensione tra gli 863 trattenuti ancora sull'isola e a un intervento delle forze dell'ordine in tenuta anti-sommossa, l'edificio centrale e la mensa sono stati distrutti dalle fiamme. Alcuni dei migranti, tutti tunisini, sono chiusi nel centro da più di cinquanta giorni in condizioni degradanti ampiamente descritte dai parlamentari, dai giuristi e dai membri delle associazioni che hanno visitato il posto.
Secondo il ministero degli interni, sono tutti in possesso di una notifica di decreto di trattenimento e di un decreto di allontanamento. Sono quindi destinati a un'espulsione verso la Tunisia in tempi brevi.
Eppure, diversi elementi di quanto dichiarato dalle autorità pongono un problema dal punto di vista delle leggi e delle convenzioni in vigore, compreso il Testo unico sull'immigrazione pubblicato in Italia. Il primo aspetto problematico riguarda la validità legale dei decreti di allontanamento. Secondo la legislazione in vigore, questi decreti devono essere convalidati da un magistrato dopo un esame individuale, alla presenza di un avvocato difensore e di un interprete. Ma a Lampedusa non c'è né un tribunale, né un giudice. Le autorità hanno quindi dovuto far arrivare in aereo tre magistrati e tre avvocati nominati d'ufficio, che si sono trattenuti sull'isola tre giorni, secondo le informazioni che abbiamo potuto raccogliere; poi, ancora un'altra volta, due giudici e due avvocati per due giorni. In questo modo, sono stati esaminati circa 1200 casi. La semplice aritmetica può aiutare a farsi un'idea sulla validità di questi «esami individuali e imparziali». Le decine di testimonianze di migranti trattenuti che abbiamo potuto raccogliere descrivono in modo simile il loro passaggio di fronte a un giudice: «Sono stato convocato in un ufficio di polizia, all'interno del centro. C'erano solo quattro persone, una delle quali si è presentata come giudice e un'altra come il mio avvocato. Quest'ultimo non ha più aggiunto altro. Un'altra persona era un interprete della polizia; l'ultimo non so chi fosse. Il tutto è durato meno di cinque minuti. Non ho capito tanto bene cosa sia successo».
Un altro aspetto problematico è il mantenimento in stato di detenzione e la sua notifica. Una persona non può essere trattenuta contro la propria volontà più del tempo necessario al suo trasferimento fintanto che non sia stata oggetto di un decreto di allontanamento. Solo una volta notificato il decreto, può essere trattenuta in una struttura prevista ad hoc - ossia un Cie. I tunisini di Lampedusa sono invece stati trattenuti più di un mese in un centro di prima accoglienza (Cpa), prima che il ministero dichiarasse effettivamente la sua trasformazione in un Cie. A tutt'oggi, il decreto ministeriale annunciato per regolarizzare a posteriori una detenzione la cui legittimità è controversa, non è ancora stato pubblicato.
Un terzo aspetto particolarmente inquietante riguarda il rispetto delle leggi e delle convenzioni sul diritto d'asilo. Il ministero dell'interno ha a lungo giustificato l'istituzione del Cie di Lampedusa dicendo che lì dovevano essere trattenuti i migranti irregolari oggetto di identificazione o di procedura di espulsione, escluse quelle categorie che possono godere di una protezione particolare (minori, donne incinte, richiedenti asilo). Questi ultimi sono peraltro stati trasferiti nel Cpa della base Loran, a capo Ponente, subito dopo il cambiamento di status del centro di contrada Imbriacola. A eccezione, tuttavia, dei richiedenti asilo tunisini!
A differenza di quanto affermato ufficialmente e di quanto diffuso dai media, ci sono tra i trattenuti nel Cie diverse decine di richiedenti asilo, di cui conosciamo l'identità. Una parte importante di loro proviene da una regione, il bacino minerario di Gafsa, nel sud-ovest della Tunisia, in cui da più di un anno è in atto una repressione molto violenta. Gli abitanti di questa regione molto povera ed emarginata hanno portato avanti per mesi un movimento di contestazione della politica sociale e della gestione delle ricchezze da parte del potere tunisino. La reazione è stata feroce: molestie, torture, militarizzazione, morti e processi politici con pene molto pesanti. Questi avvenimenti sono documentati e sono oggetto di testimonianze di vari osservatori, organizzazioni dei diritti umani e giuristi. In queste condizioni, la «cooperazione rafforzata» annunciata dalle autorità italiane e tunisine con l'obiettivo di procedere a rimpatri rapidi e di massa può legittimamente far temere il peggio.

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