
Confindustria si lamenta, ma chi ci rimette è il lavoro
di Francesco Piccioni
su Il Manifesto del 16/01/2009
Il decreto anticrisi non piace a nessuno. I motivi cambiano a seconda dei soggetti, ma il dato resta: non va bene. Anche Confindustria ha storto il naso. Non che consideri sbagliata la «filosofia» del provvedimento o qualche norma particolare. Semplicemente la dimensione dello «stimolo» è ben poca cosa rispetto alle necessità.
La sfumatura critica è arrivata attraverso il documento elaborato dal Centro Studi, che suggerisce infine di «adottare riforme strutturali che portino risparmi. Dopo tre decenni di «riforme strutturali» del mercato e delle regole del lavoro non sembra facile trovare nuove idee. Ma il vicepresidente dell'associazione imprenditoriale, Alberto Bombassei, non ha dubbi e chiede alla Cgil «un atto di corresponsabilità», con la firma della riforma del modello contrattuale. Altrimenti «pazienza, il mondo va avanti». Quindi anche - e soprattutto - senza la Cgil. Invito respinto al mittente dal segretario confederale Fulvio Fammoni, che centra invece l'attenzione sulla vera «priorità, ovvero non chiudere imprese e non perdere lavoro».
La pressione di Confindustria va insomma nella direzione di una più pesante deregolamentazione del mercato del lavoro, con la fine del contratto nazionale e la generalizzazione della precarietà. Una ricetta da «deflazione salariale» che prosegue in modo lineare quella perseguita (non solo in Italia, naturalmente) negli ultimi 25 anni e che ha preparato questa crisi, deprimendo in modo strutturale la domanda solvibile (il poter comprare senza ricorrere al credito).
Eppure proprio il Centro Studi stima che nel corso del 2009 ci sarà un boom della disoccupazione, il cui tasso che potrebbe toccare l'8,4% (l'ultima rilevazione lo dava al 6,7%). Per chi produce beni dovrebbe essere un problema serio, visto che contemporaneamente stanno crollando anche le esportazioni. Confcommercio - che di consumi popolari vive - vede con terrore la possibilità che 1,9 milioni di persone perdano quest'anno il posto di lavoro; le conseguenze sistemiche sono difficilmente calcolabili.
Di fronte a questo scenario - condiviso, con cifre più o meno simili, anche dall'Ocse e da altri istituti internazionali - il governo mette in campo una manovretta stitica e senza respiro, limitandosi ad accompagnare le tendenze senza metterci mano. Con qualche decisionismo pericoloso in campo infrastrutturale e delle autentiche prese in giro in quello sociale.
Qualche esempio per chiarire. La «velocizzazione delle procedure esecutive» in sede di «investimenti pubblici di competenza statale» affida al ministro dell'economia il compito di individuare quelli «prioritari», con il solo concerto del ministro dello sviluppo economico. Lo stesso Tremonti viene autorizzato a sottoscrivere strumenti finanziari privi di diritto di voto per assicurare un «adeguato livello di patrimonializzazione delle banche». In altre parole: erogazione di fondi pubblici senza contropartita. Al massimo viene prevista la loro convertibilità in azioni ordinarie, ma solo su richiesta delle banche stesse.
Sugli aiuti ai disoccupati e alle famiglie siamo ancora una volta alla propaganda pura e semplice. Il «blocco delle tariffe» si applicherà soltanto per i servizi erogati direttamente dalla pubblica amministrazione: ovvero bolli, tasse automobilistiche, ecc. Autostrade, luce, gas, acqua, resteranno sotto il controllo dell'Authority (già decisi gli aumenti per le autostrade; per fortuna il crollo del prezzo del greggio ridurrà da solo le bollette energetiche).
Niente da guadagnare nemmeno sui mutui immobiliari. La «promessa» di ancorarli al livello massimo del 4% è per un verso inutile (il tasso Bce ieri è sceso al 2%), per l'altro beffardo (nessuno impedirà alle banche di aumentare gli spread fino a raggiungere quella quota «massima»). Peggio ancora per gli ammortizzatori sociali, strumento centrale in un periodo di licenziamenti di massa. Al Fondo per l'occupazione sono destinati appena 289 milioni per l'anno in corso, con cui si dovrebbero coprire le esigenze di una serie di istituti di tutela del reddito in caso di perdita del lavoro. Si dice che la cassa integrazione viene estesa anche ai precari, ma non è assolutamente di questo che si parla nel decreto. Ci sono «indennità di disoccupazione» che possono durare al massimo 90 giorni, ma subordinate a un numero tale di condizioni escludenti da far pensare che - come nel caso della social card - sarà un terno a lotto poterne usufruire.
Per le imprese, invece, facilitazioni a go-go (ne riparleremo). Ma, come spiega Confindustria, «ancora troppo poco» e frammentato in cento voci.
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