Boom di richieste di disoccupazione

12.03.2009 13:12

di Francesco Piccioni

su Il Manifesto del 11/03/2009

Nel primo bimestre dell'anno, le domande all'Inps per l'indennità sono salite del 46% rispetto allo stesso periodo del 2008. Oltre 370 mila persone in fila, 100 mila in più dell'anno scorso. Cgil e sinistra: «Necessario proteggere tutti»

Ora le chiacchiere stanno davvero a zero. Dopo mesi passati a rincorrere un premier Jokerman impegnato a «spargere ottimismo» negando crisi sotto gli occhi di tutti, adesso cominciano a uscire le prime cifre ufficiali sulla caduta dell'occupazione. Cifre che resocontano quello che è già avvenuto, non «stime» che saranno riviste - in peggio, di solito - entro una settimana o due.
Ieri l'Inps ha reso noto che tra gennaio e febbraio 370.561 lavoratori dipendenti hanno perso il posto, presentando all'Inps la domanda di indennità di disoccupazione. Nello stesso periodo del 2008 erano stati 116.983 in meno; l'aumento è dunque del 46,13%. Persone senza lavoro che si vanno ad aggiungere a quelle in cassa integrazione o in mobilità. L'indennità di disoccupazione, in Italia, è l'ultimo ammortizzatore sociale: poi non c'è più nulla. E non si vede un solo settore produttivo che si muova in controtendenza, aumentando le assunzioni.
L'indennità può esser chiesta dai lavoratori che abbiano almeno 52 settimane di contributi versati negli ultimi due anni e almeno 78 giornate lavorative nell'anno precedente a quello in cui viene presentata la domanda. Può riguardare sia lavoratori con contratto a tempo determinato giunto a scadenza, che lavoratori a tempo indeterminato licenziati anzitempo (ristrutturazioni aziendali, chiusure, ecc); ma che taglia fuori ampie quote di precari. L'assegno viene corrisposto per soli otto mesi (dodici nel caso di ultracinquantenni) ed è pari al 60% dell'ultima retribuzione per i primi sei mesi; scende al 50% nei successivi due e al 40% nei mesi in deroga.
Questi dati giungono a sole 24 ore dall'allarme lanciato dal Comitato per l'occupazione e per la protezione sociale della Ue, che aveva ipotizzato una prossima contrazione occupazionale di 6 milioni di posti nei 27 paesi dell'Unione. Tra i primi a reagire ci sono la Cgil e la sinistra. Il segretario generale del primo sindacato italiano, Guglielmo Epifani, ha constatato quasi sconsolato che «Nessuno è in condizione di capire quello che succede, si fanno solo ipotesi»; ma che non accetta la deriva della «guerra tra poveri», scegliendo invece «la strada della coesione, della solidarietà, dell'affermazione dei diritti sociali e alla salute: diritti rivolti a tutti i cittadini, senza discriminazione alcuna, siano essi italiani o stranieri migranti».
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, ha colto il dato per proporre «l'estensione della cassa integrazione a tutti coloro che perdono il posto di lavoro». Non risulta infatti «accettabile che chi lavora in piccole o piccolissime imprese, in società cooperative o in qualità di lavoratore interinale abbia meno diritti di altri lavoratori meglio tutelati». Il problema è che i «medici» chiamati al capezzale della crisi sono gli stessi che ne hanno messo a punto i congegni esplosivi. E così si mostrano soddisfatti perché «la maggiore flessibilità consente ora alle imprese di adeguare rapidamente la propria capacità produttiva», ma indicano anche la necessità di «misure tempestive, temporanee e mirate» per «incentivare l'occupazione, prevenire e limitare la perdita dei posti di lavoro e le ripercussioni sociali». Le indicazioni operative, però, non vanno al di là della solita flexsecurity (una riduzione generalizzata delle garanzie per meglio redistribuire - a un livello più basso - forme di welfare miserabili). Con due mani prendono, con mezza danno (forse).
Una ricetta fuori tempo, nel bel mezzo della crisi. Persino il Financial Times ora se n'è accorto. Il 22 febbraio ha infatti pubblicato un lungo articolo di Paul De Grauwe - docente a Lovanio - in cui spiega che in una fase di «deflazione da debiti», istituzioni sociali troppo flessibili (imprese libere di licenziare o tagliare i salari) - gli effetti negativi vengono ampliati a dismisura: le insolvenze si moltiplicano e vaste masse di lavoratori vengono spinti verso la pauperizzazione. Al contrario, i paesi con salari rigidi e buona sicurezza occupazionale sociale sono più favoriti, perché la deflazione trova un «pavimento» su cui fermarsi. Come nota anche Francesco Garibaldo, in questi paesi «la società non può impoverirsi oltre un certo livello e le aziende sono costrette più rapidamente ad aggiustamenti strutturali, piuttosto che scaricare il costo per intero sul lavoro». Certo, questo comporta un «diverso bilanciamento dei rapporti di forza che sbarri la strada al capitale nella sua naturale tendenza» a far pagare ogni aggiustamento ai lavoratori. Un po' di normale conflitto sociale, insomma. Non un rassegnato «fate qualcosa»

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