
Auto: regia pubblica, senza regali
di Francesco Garibaldo
su Liberazione del 29/01/2009
La crisi manifesta dell'auto intreccia due problemi diversi, con conseguenze distribuite temporalmente in modo differente. Il primo è la caduta verticale delle vendite, legata sia alla contrazione dei redditi dovuta alla crisi generalizzata in corso - in un solo giorno sono stati licenziati 72.500 lavoratori in otto grandi gruppi internazionali - che all'ormai cronico eccesso di capacità produttiva installata, sia su scala mondiale sia nelle maggiori macro aree economiche. Su scala mondiale si stima che la capacità produttiva sia di 94 milioni/anno contro 60 milioni vendute. Il secondo è l'esaurirsi, sul medio-lungo periodo, dell'auto come la risposta alla mobilità delle persone, in particolar modo nelle grandi aree metropolitane, dove già vive metà della popolazione mondiale. Ciò a causa dell'inquinamento legato ai motori a combustione e al sovraffollamento di auto che ne riduce drammaticamente la velocità media nelle aree metropolitane e, infine, il rischio evidente che la riproduzione del modello occidentale di motorizzazione per la metà dell'umanità, che ne è stata finora esclusa, porti all'esasperazione di questi due fattori, aggiungendone un terzo, per le aree extraurbane: la riduzione progressiva del territorio agricolo per la costruzione di strade. Il modello di sviluppo post bellico - acciaio, case, auto - è giunto al termine.
Tutti i governi stanno approntando misure d'intervento che sono seconde, per dimensioni, solo a quelle decise per le banche.
La prima ragione è banale ma sostanziale, infatti, solo in Europa l'auto e le attività da essa indotte interessano dodici milioni di posti di lavoro - 50 milioni nel mondo -, se si riducessero della metà in due anni, la società europea conoscerebbe uno shock da tempi di guerra. La seconda è che il mercato non risolverà nulla da solo, sia si voglia aiutare il consolidamento e il rilancio del settore, sia si voglia porre fine al modello auto-centrico di mobilità.
Tali misure, per non tradursi in un regalo - a spese dei contribuenti - alle industrie, devono misurarsi con tutti gli aspetti della crisi. Si tratta quindi di amministrare non un semplice ciclo negativo che condurrà a una ripresa, sia pure con un nuovo livello di concentrazione, ma una transizione che richiederà del tempo. Penso a due analogie: per un verso la transizione dell'inizio del '900 dai tram all'auto, per l'altro alla esperienza europea della comunità del carbone e dell'acciaio. La prima analogia indica il carattere multidimensionale di tale transizione; essa riguarda, infatti, anche la riprogettazione degli ambienti urbani e delle aree metropolitane, nonché dell'equilibrio nell'uso del territorio interrompendo il consumo del territorio agricolo, a causa del fenomeno dello sprawling. La seconda analogia riguarda il necessario carattere europeo e direttivo del processo di riposizionamento dell'industria europea dell'auto. Il grado di eccedenza di capacità produttiva europea è tale, che se fosse affidato al mercato senza alcuna regia pubblica, un processo di consolidamento si tradurrebbe in "macelleria sociale". La tendenza oggi prevalente è quella, al contrario, d'interventi nazionali.
L'Europa dovrebbe elaborare, con una fase di consultazione, un'ipotesi di specializzazione e consolidamento del settore auto, anche tenendo conto di possibili accordi globali, e di riutilizzo delle competenze tecniche e delle capacità produttive nella costruzione di un diverso sistema complessivo di mobilità; non si tratta di fare delle manovre coordinate ma di elaborare una manovra europea. Infatti, il rischio è che, in assenza di un progetto di respiro europeo, ognuno dei governi e dei sindacati nazionali si schieri con la propria industria e, per i sindacati, che, dove ve n'è più di una, con il proprio marchio. Dato che la cura che è vista universalmente come salvifica, è il taglio di capacità produttiva, il risultato di una chiusura nazionalistica e corporativa è anche quello di difendere il nucleo duro e sindacalizzato di ciascuna impresa leader, a spese dei precari, in primo luogo - molti immigrati e giovani - poi della subfornitura a bassa specializzazione, poi dei servizi, ecc. Andrebbe messa in discussione la saggezza di puntare a un taglio delle capacità produttive e a conseguenti licenziamenti. Un new deal europeo non consiste nell'investire senza senso ingenti quantità di denaro per il rilancio dei consumi, come non lo fu il new deal degli anni '30, ma nella difesa e creazione di posti di lavoro per svolgere attività produttive che riorganizzino l'attività industriale e modifichino la struttura dei servizi. Un piano di transizione dell'industria dell'auto in Europa può partire dal rifiuto dei licenziamenti, infatti, nelle ipotesi avanzate vi è una grande quantità di lavoro da fare, da questo punto di vista è di grande interesse la posizione del governo tedesco che chiede alle grandi imprese un anno di moratoria sui licenziamenti.
E' evidente, e qui sta il problema, che in tale ipotesi il ritorno sui capitali investiti non può, per un periodo lungo, avere i livelli sino ad ora realizzati, il che ci porta di nuovo alla finanziarizzazione di questi decenni e al ruolo dello Stato. E' tempo quindi di superare Maastricht, non per allentarne i vincoli, ma per ripensare l'idea stessa del patto di stabilità; appare, infatti, evidente che gli investimenti necessari per il new deal non possono essere considerati come pura e semplice spesa. Analogamente non ha più alcun senso l'idea che, all'inizio di una deflazione, ci si debba proteggere dal rischio d'inseguimento salari nominali-prezzi. Adesso il problema è solo politico: che peso deve avere il monte salari nella ricchezza nazionale.
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