88 anni dopo, la Rifondazione Comunista

21.01.2009 14:08

88 anni dopo, la Rifondazione Comunista

di Paolo Ferrero


Ottantantotto anni fa nasceva a Livorno il partito Comunista d’Italia, sezione dell’internazionale comunista. Dopo la sconfitta del biennio rosso e del movimento di occupazione delle fabbriche, l’incapacità del partito Socialista di dirigere positivamente il movimento di massa veniva sancito da questa rottura. Il movimento operaio italiano non nasceva in quel passaggio, ma li si decise una svolta, si decise il cambiamento del nome: da li in poi, anche in Italia, i rivoluzionari si sarebbero chiamati comunisti. Il cambio del nome nacque dalla necessità di distinguersi dai partiti socialisti. Questi erano stati travolti; prima dall’incapacità di tenere una posizione autonoma dalle varie borghesie nazionali nella gigantesca carneficina che fu la prima guerra mondiale; poi dall’incapacità a definire uno sbocco rivoluzionario alla crisi post bellica. I partiti socialisti si erano rivelati una guida fallimentare per i lavoratori e così, i rivoluzionari, dopo la vittoria in Russia, decisero di segnare nettamente la differenza, addirittura con il cambio del nome.
Quaranta anni fa Jan Palach si dava fuoco in piazza Venceslao a Praga per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Quel’invasione, che seguiva di 12 anni l’invasione dell’Ungheria, metteva la parola fine alla primavera di Praga. Chiudeva brutalmente il più importante tentativo di autoriforma avvenuto nei paesi a socialismo reale. I sistemi politici nati con la rivoluzione russa evidenziavano in modo drammatico di essere entrati in contraddizione totale con le aspirazioni che li avevano generati. La speranza di trasformazione sociale che il comunismo aveva portato al punto più alto nel mondo moderno, con una rivoluzione che aveva sovvertito completamente l’ordine sociale, veniva annichilita sotto i cingoli dei carri armati.

Per questo il nostro partito oggi si chiama Partito della Rifondazione Comunista. Perché ci sentiamo in piena sintonia con quei rivoluzionari che assaltarono il palazzo d’inverno e che diedero vita al Partito Comunista d’Italia e perché siamo consapevoli che i sogni e le speranze di quei rivoluzionari sono stati negati, calpestati ed offesi a Praga, a Bucarest come a Berlino nel 1953. Rifondazione Comunista, due termini che si sostengono e si qualificano a vicenda. L’uno senza l’altro perdono di significato, non possono esprimere il senso del nostro progetto,sono muti. Rifondazione Comunista non è solo il nome del partito ma il nostro progetto strategico: rendere attuale il comunismo attraverso il suo processo di rifondazione, che matura e cresce interagendo con le soggettività antagoniste.

Da qui ripartiamo oggi. Nella consapevolezza che gli ultimi tempi il progetto della rifondazione comunista è stato pesantemente attaccato e messo in discussione da chi ha proposto di abbandonare ogni riferimento al Comunismo. La rifondazione senza il comunismo non è l’approdo naturale della nostra storia ma la negazione radicale della nostra ragione di esistenza. La rifondazione senza il comunismo è la pura riedizione dell’occhettismo, cioè l’innovazione senza principi e la perdita di ogni autonomia politica.

Ricordiamo quindi oggi quel lontano 21 gennaio 1921, nella piena consonanza di ideali e di propositi, per proporre il rilancio del progetto della rifondazione comunista. Questo non avviene nel vuoto pneumatico, non avviene nel cielo delle ideologie; avviene nel bel mezzo di una gravissima crisi economica che mostra, una volta di più, il volto distruttivo del capitalismo. Quella in cui siamo entrati è una crisi pesantissima, che durerà a lungo e che cambierà profondamente il nostro modo di vivere. E’ una crisi “costituente” in cui si intrecciano crisi economica, crisi sociale e crisi della politica. Il parallelo storico che salta agli occhi è quello con la Germania della repubblica di Weimar, in cui identità sociali e politiche consolidate si sfaldarono e il disagio e le paure sociali vennero egemonizzate dalla barbarie razzista.

Ricostruire una speranza. Ricostruire un efficace conflitto di classe, forme di solidarietà e di mutualismo, evitare le guerre tra i poveri. Far vivere nel conflitto la lotta per le libertà e per l’eguaglianza. Prospettare una uscita da sinistra da questa crisi, in termini di intervento pubblico per la ristrutturazione ambientale e sociale dell’economia e di redistribuzione del reddito e del potere. Queste sono le sfide a cui dobbiamo saper rispondere nella costruzione dell’opposizione. Non si tratta di proseguire come ieri. Rifondazione Comunista non si salva conservandola ma spendendola nella capacità di dare una risposta alla crisi, sommando spirito unitario e determinazione, nella forte sintonia che ci lega alle esperienze latinoamericane. Il Partito Comunista Italiano seppe costruire il suo ruolo e la sua ragion d’essere politica nella lotta partigiana, nell’abbattimento del regime fascista e nella costruzione della democrazia in Italia. Noi oggi vogliamo rilanciare il nostro progetto di rifondazione comunista nella capacità di dare una risposta, in basso a sinistra, a questa crisi.

 

Un esordio burrascoso soto i colpi del Tribunale fascista

di Nicola Tranfaglia

su Liberazione del 21/01/2009

Era la mattina del 21 gennaio 1921 nasceva a Livorno, scindendosi dal partito socialista, il "Partito comunista" sezione italiana della Terza Internazionale comunista.
Da quel giorno sono passati ormai 88 anni, ma questo anniversario ha luogo - è bene ricordarlo - a quasi vent'anni dalla fine dell'Unione Sovietica e dalla presenza ormai residuale di partiti e regimi comunisti, se si esclude il caso della Cina in cui convivono da trent'anni un capitalismo più o meno di Stato e il partito comunista.
Dal punto di vista storico, che è quello che interessa in questa ricorrenza, vecchie e nuove generazioni, il partito comunista nasce in Italia quando la crisi postbellica ha già segnato fasi decisive dell'ascesa del movimento fascista fondato due anni prima da Benito Mussolini a Milano ed è ormai presente con migliaia di iscritti nel centro-nord della penisola con alcune minori presenze anche nel Mezzogiorno e nelle isole.
La molla per la fondazione è stata, senza alcun dubbio, la rivoluzione bolscevica in Russia che sta per vincere la guerra civile contro i bianchi e ha fondato nel 1919 una Federazione Internazionale dei partiti comunisti, cui aderirono nei mesi successivi 64 partiti in cinquanta paesi. Ma il partito socialista italiano, all'interno del quale erano stati i comunisti, vede nel 1922 uscire anche la componente riformista di Filippo Turati e Claudio Treves che costituisce il Partito Socialista Unitario mentre resta alla sua guida Serrati, leader dei massimalisti, che rappresenta una strategia diversa da quella delle frazioni comuniste di Antonio Gramsci a Torino e di Amedeo Bordiga, leader indiscusso del primo Pdci, a Napoli.
C'è da parte del nuovo partito, e in particolare di Bordiga, una indubbia sottovalutazione del pericolo fascista che, un anno dopo la fondazione del Pdci, raggiunge il potere e mette fuori legge partiti, sindacati e giornali a cominciare proprio dai comunisti italiani. Gramsci diventa segretario nel giugno-luglio 1924 di fronte alla persistente contrarietà di Bordiga e dei suoi seguaci al "fronte unico" deciso dalla Terza Internazionale e riesce a portare nel partito una parte dei massimalisti (i cosiddetti "terzini") espulsi dal Partito socialista.
Gramsci fonda, il 12 febbraio 1924, il quotidiano L'Unità che resterà, nella storia del partito, l'organo giornalistico ufficiale che si propone di dialogare con le masse vicine alla nuova formazione politica. Nell'aprile 1924, in un clima di aperta violenza alimentato dai fascisti a cui i socialisti non reagiscono, il Pdci ottiene 268 mila voti e 19 deputati tra i quali Gramsci, eletto nel Veneto. Nella crisi scoppiata per il rapimento e l'uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno 1924 i comunisti si uniscono all'Aventino proclamato dal liberale Giovanni Amendola ma in ottobre ritornano in parlamento dopo che lo stesso Gramsci ha definito l'Aventino come "un semifascismo che vuole addolcire, riformandola, la dittatura fascista." I comunisti non si rendono conto, come i partiti aventiniani, della grande forza che ha Mussolini, sostenuto dal re, dal Vaticano e dagli industriali, e parlano in astratto di coinvolgere le masse popolari ma si dedicano di fatto soprattutto al dibattito interno nel partito, che resta assai acceso e assistono, senza poter far molto, al discorso del 3 gennaio 1925 e, ancora di più, alla realizzazione della dittatura vera e propria con le leggi eccezionali dell'autunno-inverno 1926.
Nel terzo congresso a Lione, nel gennaio 1926, si completa la conquista del partito da parte di Gramsci e del gruppo torinese e l'emarginazione dei bordighiani, in rotta con la Terza Internazionale e ha inizio quasi un ventennio di lotta clandestina in Italia e in Europa, fruendo dell'appoggio indispensabile del Partito comunista sovietico. Ma Gramsci, già alla fine del 1926, viene arrestato e condannato,
come Terracini a venti anni di carcere, dal Tribunale Speciale e passa il resto della sua esistenza prima nel carcere di Turi poi in una clinica a Gaeta, cessando di vivere improvvisamente nell'aprile 1937. Lascia le sue Lettere dal carcere e soprattutto i Quaderni del carcere , un patrimonio di grande importanza per la storia del partito comunista, anche se sarà decisiva la mediazione del suo successore Palmiro Togliatti divenuto, dopo la sua morte, il segretario del Pdci in esilio e poi in Italia alla liberazione dal fascismo.
Nell'ottobre 1926, prima di essere arrestato, Gramsci invia una lettera all'Ufficio politico del partito comunista russo mostrando di essere angosciato dalle divisioni che caratterizzano la vita del partito fratello e temendo che quelle divisioni possano portare alla fine del ruolo dirigente nel proletariato internazionale. Due anni dopo, nel 1928, l'Internazionale Comunista modifica radicalmente la strategia del fronte unico ed elabora quella della "classe contro classe" invitando gli altri partiti comunisti a muovere contro la socialdemocrazia considerata strenuo baluardo del capitalismo.
Ma l'accettazione della parola d'ordine porta all'espulsione di Tasca che nel 1929 si era pronunciato con durezza contro le posizioni dell'Internazionale Comunista.
Gli anni successivi sono anni difficili per il partito clandestino che ha alcuni centri nel Nord ma è quasi assente nel Mezzogiorno e nelle isole di fronte a un attacco molto duro della polizia segreta fascista, l'Ovra e del Tribunale Speciale. I comunisti saranno i maggiori oppositori del regime, quelli che pagheranno il prezzo più alto: su 4671 condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, istituito nel 1926, 4030 furono i comunisti condannati a complessivi 23.000 anni di carcere (insomma, su 5600 imputati del Tribunale Speciale l'80 per cento era composto da comunisti).
In carcere Gramsci abbozzava le proprie intuizioni sulla funzione degli intellettuali e sull'importanza che, per la rottura del blocco agrario e la realizzazione dell'alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud si determinasse al loro interno una "tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario."
Soltanto nel 1934-35, dopo le conseguenze terribili per operai e contadini in tutta l'Europa, e particolarmente in Italia, della grande crisi del 1929 e l'avvento di Hitler al potere, l'Internazionale Comunista mutò ancora orientamento e si orientò verso una politica delle alleanze che sarebbe sfociata in Francia e in Spagna nella politica dei fronti popolari.
Ma intanto la guerra premeva e nel 1939 i fascismi, guidati dalla Germania nazionalsocialista di Adolf Hitler, avrebbero scatenato il nuovo conflitto mondiale.

 

«Da quella spaccatura nacque una grande forza democratica»

di Vittorio Bonanni

su Liberazione del 21/01/2009

A colloquio con Luciana Castellina

Luciana Castellina è stata un'esponente di spicco del Partito comunista italiano. Una dirigente di primo piano e un'intellettuale eterodossa, radiata nel 1969 dal Pci per la presa di posizione del gruppo de il Manifesto , del quale faceva parte, sui paesi dell'allora Patto di Varsavia e in particolare sulla Primavera di Praga. A lei abbiamo chiesto di commentare i fatti che portarono il 21 gennaio del 1921 alla nascita del Partito comunista in Italia: i dissidi interni alla Seconda internazionale di fronte alla Grande guerra, con il voto favorevole al conflitto del partito socialdemocratico tedesco; il movimento rivoluzionario russo, all'interno del quale prevalsero i bolscevichi con la conseguente nascita in Europa e nel mondo di vari partiti comunisti; e per finire l'incapacità dei socialisti italiani di distinguersi dal resto del movimento socialista.

Luciana, tutti avvenimenti che dopo tanti anni si tenta di interpretare con una chiave di lettura diversa. Si dice che la scissione di Livorno doveva essere evitata, che si doveva agire diversamente, senza contare che si è fatta strada una valutazione del tutto negativa della rivoluzione d'Ottobre. Che cosa ne pensi?
Innanzitutto credo che le ragioni di quella spaccatura all'interno del Partito socialista c'erano ed erano molto forti. Non dimentichiamo che c'era stata anche l'ondata sciovinista che aveva coinvolto i socialisti, dai quali non a caso arrivò Mussolini. Ci fu un'ala che addirittura si aggregò al fascismo. Per carità non fu affatto questa la storia del Partito socialista ma porsi l'interrogativo "si poteva evitare, non si poteva evitare" è sbagliato intanto perché la storia non si fa mai con i se ed è meglio dire che cosa è realmente accaduto.

Per esempio che il Pci da allora è rimasto il primo partito della sinistra italiana...
infatti ci sarà pure stata qualche ragione per la quale il Partito comunista è diventato la forza politica di gran lunga maggioritaria del movimento operaio italiano e il nerbo della Resistenza e dell'antifascismo. Certo ci sono stati anche i socialisti. E allora, in quel frangente, c'era da chiedersi il perché di quella divisione tanto più che io stessa ho vissuto quella fase, nell'immediato dopoguerra, con il patto per l'unità d'azione tra socialisti e comunisti. Ho militato nelle organizzazioni comuni e fino al '48 c'era il Fronte popolare, che sembrava il risultato di un processo che poteva portare alla riunificazione. Questo poi non è avvenuto e, come dicevamo, il Pci è diventata la forza più importante della sinistra italiana. Poi tanti errori si dovevano e si potevano evitare, li conosciamo tutti ed è inutile rifare qui l'elenco. Ma io credo che alla fine si possa ben dire che l'esistenza di quel partito nato a Livorno sia stato un elemento determinante nella costruzione della democrazia in Italia. Il modo con cui ha inciso trasformando la società italiana è insomma una buona ragione per dire che valeva ben la pena che fosse nato quel partito.

Come dicevamo la nascita del Pci, come degli altri partiti comunisti, fu determinato anche e soprattutto dalla Rivoluzione d'Ottobre. Che cosa possiamo dire oggi?
Quello è stato uno dei tanti momenti della storia in cui non era molto possibile scegliere. La Rivoluzione d'Ottobre ha avuto anche le conseguenze brutali che conosciamo ma se non ci fosse stata la storia sarebbe stata diversa ma anche molto peggiore.

Oggi chi è stato protagonista di quella storia è in difficoltà. C'è chi vuole mantenere in vita un partito comunista, chi pensa ad altro, chi vuole superare le divisioni di allora ma avendo di fronte uno scenario assolutamente altro. Che cosa ne pensi?
Certamente oggi non è pensabile la ricostituzione di un partito comunista fidandosi soltanto di ciò che quella parola ha significato nella storia. Intendiamoci bene la storia e la memoria sono sempre importantissime. Nessun futuro si costruisce se non si ha un passato e quindi anche un patrimonio di esperienza storica che c'è dietro e guai se lo dovessimo cancellare o liquidare. Altra cosa è dire però che possa essere riprodotto tale e quale.

 

Chi ha ucciso Livorno? Craxi proudhoniano

di Giuseppe Prestipino

su Liberazione del 21/01/2009

Il craxismo fu un passaggio decisivo nell'attacco all'idea comunista

La storia dell'opposizione politico-sociale in Italia percorre almeno quattro fasi. La prima fu forse in varia misura caratterizzata da un ribellismo sociale principalmente contadino e/o meridionale, ancorché in alcune regioni e città si diffondessero le diverse correnti socialiste, il movimento cooperativo e, dopo la Rivoluzione di ottobre, gli esperimenti consiliari di autogestione nelle fabbriche e la stampa alternativa a quella socialista, come prime avvisaglie della scissione di Livorno. La seconda fu la fase dell'opposizione politica clandestina, comunista ma anche socialista e liberaldemocratica, contro il fascismo. La terza fu, dopo la caduta del fascismo, la fase della "democrazia organizzata" in un partito comunista di massa, capace di educare anche le plebi alla graduale conquista di "fortezze e casematte" combattendo la (gramsciana) "guerra di posizione". A Livorno era nato il Pcd'i. L'autentico atto di nascita del Pci non è tanto nella Resistenza o nella "svolta di Salerno", quanto nelle lotte per i decreti Gullo e soprattutto nella Costituzione repubblicana, che vede decisivamente impegnati tre "ordinovisti" torinesi: uno dei tre, Gramsci, presente-assente (presente come ispiratore) e gli altri due protagonisti di primo piano nell'elaborazione della Carta (Togliatti) e nel presiedere i lavori dei costituenti (Terracini).
La quarta è la fase di una nuova ribellione quasi-anarchica, ma non più di plebi rurali o urbane, perché i suoi attori sono principalmente gruppi di piccoli intellettuali (diciamo "piccoli" per differenziarli dai "grandi intellettuali", mediatori coscienti del consenso a sostegno di industriali e agrari, scrutati dalle analisi gramsciane). In quest'ultima fase, studenti e mondo della scuola scuotono dapprima il sistema, in specie nel '68-69 e sotto i cartelli inneggianti alla vittoria vietnamita, contribuendo così alla rinnovata elaborazione teorica di Panzieri e di altri, alla conquista di nuovi spazi democratici e culturali-formativi anche a beneficio della classe operaia, a sua volta in forte movimento (tuttavia organizzato o non soltanto spontaneo). Ma, ben presto, alcuni appartenenti a quella generazione scelgono di assecondare, per un loro tornaconto personale, il disegno di restaurazione in atto ad opera del capitale e diventano giornalisti di destra o funzionari di azienda o infine consiglieri del principe nell'ultimo reame neoliberista. Altri scelgono la strada illusoria e rovinosa della lotta armata. Altri ancora, con il loro radicalismo anarchico o libertario e con la loro ingenua polemica contro la forma-partito (non soltanto novecentesca), si prestano senza volerlo al ben più accorto e insidioso giuoco delle destre "democratiche" ultra-conservatrici. Quest'ultima è la tipologia che caratterizza specialmente il periodo attuale. E' evidente che le diverse tipologie possono talvolta convivere o intrecciarsi tra loro. Un passaggio esemplare ritroviamo nel craxismo, ideologia anti-comunista che, sul terreno "teorico" rivaluta l'anarchismo precoce di Proudhon, sul terreno politico strizza l'occhio ai gruppi armati e ai sequestratori di Moro (non propriamente per sensibilità umanitaria) e sul terreno economico porta all'apice, senza pudori, la commistione tra politica e affari, spianando il terreno (senza volerlo) alla stagione di "mani pulite". La voce di Enrico Berlinguer sulla diversità comunista, sulla questione morale come dovere politico e sull'austerità come sinonimo di critica politica all'incipiente consumismo di massa, quella voce resta inascoltata.
Sul versante teorico il trapasso, specialmente in Italia, dal partito comunista al democraticismo e alle tendenze neo-libertarie fa seguito alle polemiche contro lo storicismo. Il canone teorico-politico del Pci, almeno a partire dalle "Tesi di Lione", è storicistico anche nel senso di realistico: non si può ignorare la realtà storica sul tronco della quale ciascun partito innesta la propria lotta. Togliatti cerca una via italiana per un salto diverso, non più esplosivo come nel 1917, dalla tradizione all'innovazione. Lo storicismo gramsciano è antitetico ad altri storicismi, in specie a quello crociano, la cifra del quale è la discontinuità nella continuità, laddove per Gramsci è la continuità nella discontinuità. E' la differenza, appunto, tra dialettica conservatrice e dialettica innovatrice, una differenza non percepita da coloro che deplorano, nel Pci, un presunto storicismo della continuità, proprio poiché essi stessi, invece, ravvisano un'inesistente "continuità" tra Croce e Gramsci. Dagli anni '70 in poi non soltanto il Pci si allontana da Gramsci, ma una malcelata fragilità accomuna anche i suoi intellettuali più prestigiosi. I non frequenti tentativi di fare teoria trapelano tra le righe dell'esegesi marxiana, non si avventurano in una distinzione, se si vuole più "scolastica", tra le "revisioni" teoriche e le reintepretazioni filologicamente rigorose dei testi marxiani.
E oggi i "superatori" del comunismo hanno basi teoriche? Poche e deboli. Le proposte di Toni Negri e di Marcello Cini, come dimostra Raul Mordenti, fraintendono Marx e assolutizzano la sostituzione del lavoro fisico con quello immateriale, enfatizzato in maniera non dialettica e debitrice di un pensiero occidentale che ricalca il vecchio dualismo tra anima e corpo. Si legga invece l'ultimo libro di André Tosel, Un monde en abîme? Essai sul la mondialisation capitaliste (Editions Kimé, Paris, 2008). La novità di quest'ultima mondializzazione capitalistica consiste nell'aver unificato non soltanto il mercato delle merci e delle comunicazioni, in specie delle comunicazioni tra le borse (ciò che in varia misura è già accaduto in passato), ma anche e soprattutto il mercato del lavoro "materiale", che ieri aveva i suoi luoghi di elezione in ambiti nazionali e diviene oggi «sottomissione mondiale del lavoro»: il capitale importa e esporta mano d'opera o "eserciti di riserva" da un paese all'altro, mettendo in atto una strategia complessa in forza della quale la frammentazione dei lavori procede di pari passo con il nuovo mercato unificato del lavoro. I vari razzismi, etnicismi, comunitarismi sono le stratificazioni del lavoro, anche in ciascuno Stato, a scopo di divisione e reciproca ostilità tra i lavoratori, specie se di diversa nazionalità, e per una rinnovata solidarietà verticale neo-corporativa tra lavoratori e datori di lavoro in una pluralità di livelli gerarchici che fa rivivere, dentro l'iper-moderno, le società premoderne. Compito di ciascuno Stato nazionale è di «assicurare la gestione differenziata della forza lavoro» e di pilotare, scrive Tosel, «la deregolazione come forma nuova della regolazione, non come il suo contrario», cercando di occupare una posizione più alta nella competizione delle sue imprese transnazionali sul mercato mondiale. «Il Presidente della Repubblica concepisce il proprio ruolo come quello di un capo-commesso viaggiatore».
Non soltanto in Francia. Il futuro Presidente della Repubblica italiana "fondata sul lavoro" è un imprenditore viaggiante in prima persona (specialmente, sull'etere).

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